Assedio di San Germano (Novembre 1476)

raccontato da Luigi Capranica - 1872

PREMESSA

Pubblichiamo questo racconto ; tratto dal romanzo di Luigi Capranica - La Contessa di Melzo - del 1872 , in quanto racconta in alcuni capitoli le vicende dell'assedio del Novembre 1476 al Castello di San Germano ( il romanzo e incentrato sulla Contessa di Melzo , amante di Galeazzo Sforza e presente nell'accampamento di San Germano durante l'assedio ) . Tale racconto romanzato è tratto come specificato dall'autore nella bibliografia , dalle memorie storiche di Bernardino Corio ( storico di Galeazzo Sforza , al seguito dell'impresa militare in Piemonte del 1476 -  BERNARDINO CORIO, Storia delle imprese e vita di G. J. Trivultio. ) , le vicende narrate sono una inedita cronaca di quello che succedeva nell'accampamento dello Sforza alle porte di San Germano.  Rispetto alle altre cronache dell'Assedio del 1476  in nostro possesso , risultano due incongruenze : 1 ) Il comandante del presidio di San Germano è il Conte di Campobasso ( anche lui soldato di ventura che ha militato al soldo dei Savoia ) in vece di Michele di Piemonte ( confermato da molte fonti storiche ) ; 2) Il racconto pone il Borgo di San Germano in prossimità della Dora Baltea , in realtà distante alcuni chilometri , a meno che non si faccia riferimento al Naviglio d'Ivrea appena costruito e derivato dalle acque della Dora.

 

 

L'ACCAMPAMENTO

 

Presso le rive della Dora maggiore, ora Dora Baltea, in vasta pianura che s'apre d'intorno al castello di San Germano, era accampato l'esercito dello Sforza. Li ultimi raggi del sole folleggiavano attraverso le picche, i festoni, i viottoli di quella bianca città. Le tende dei capitani s'elevavano al disopra delle al tre, e scintillavano d'oro e d'argento. Davanti ad esse sventolavano le bandiere ed i pennoni del nobile guerriero a cui la tenda apparteneva. Si vedevano da lontano brillare le armature dei cavalieri e dei fanti destinati a guardia dell'accampamento. Passeggiavano tra cannoni, sagri e colubrine rivolti colla bocca di bronzo verso il castello e la campagna pronti a scagliare lo sterminio. Tutto era vita e movimento. I soldati stavano sparsi in gruppi, quali forbendo le armature, quali giuocando a dadi o a palla a maglio , quali addestrandosi nella lotta, nella scherma od altri

esercizi militari, quali s'affollavano attorno a giullari e menestrelli, quali cantavano e bevevano davanti alle baracche dei vivandieri. I cavalli legati ad alberi o a piuoli confitti nel suolo, colla pastura davanti, o mangiavano o dimenando le zampe e la testa, univano i loro nitriti ai suoni, ai

canti, alle risa. A poco a poco il disco del sole scomparve, e al crepuscolo successe la sera.

Apparvero le stelle in cielo, s'accesero dei fuochi nel campo. Continuò, scemando sempre, lo schiamazzo, finchè da più lati squillarono le trombe. Successe allora un bisbiglio; poi il silenzio, non interrotto che dal grido delle sentinelle.

Su rialto, che sorgeva come il dosso d'un camello all'estremità dell'accampamento, vedevansi brillar più fiammelle. Erano le tende del Duca e della Contessa di Melzo internamente rischiarate da doppieri. Galeazzo avea portata seco quella di suo padre, ricca pur essa, ma di gran lunga inferiore alla sua, ceduta in questa circostanza all'amata donna. Era di sciamito veneziano trapunto in argento. Sulla cima delle sedici aste di metallo, da cui era sostenuta la stoffa, sventolavano pennoncelli colla biscia viscontea, ricamata in seta su fondo bianco. Nell'interno era divisa in due scompartimenti. Nel primo, ch'era la stanza di ricevimento, stavan disposti attorno sgabelli di velluto, tra colonnine di legno a vaghissimo intaglio, sulle quali eran disposti vasi d'argento colmi di fiori. Davanti ad un seggiolone ad alta spalliera con baldacchino, su tavolo lavorato di tarsia ardeva un doppiero.

L'altro scompartimento era diviso in due da una cortina di damasco, sostenuta da cordoni d'oro. In fondo a questa, su tripode di bronzo, ardeva una lampada d'alabastro presso il letto, coperto di porpora e finissime coltri orlate di merletto. Vestito di semplice tunica bianca stretta ai fianchi da

una sciarpa, sedeva Galeazzo cingendo col braccio la roseo gettato sul resto del corpo, le chiome disciolte, le braccia bellissime sollevate in arco, le mani giunte dietro la nuca, li occhi languidi, le narici dilatate, il seno agitato, giaceva supina sul letto fissando l'amante. Un grande specchio ovale a cornice d'argento, che era di fronte fra elegantissime suppellettili, rifletteva quella venustà di forme in così lascivo abbandono. Non v'è pensiero, per quanto triste egli sia, che giunga a trionfare della voluttà. Nel suo parosismo essa fa suoi i palpiti del cuore, ottenebra la mente, dà suono alla

vece, dà splendore agli occhi. Ma il suo regno è breve. Cessato il delirio, l'idea tormentosa torna con più forza ad impadronirsi della mente e del cuore, torna il lamento sul labbro, torna il pianto negli occhi. Anche nei vapori del vino l'uomo dimentica i suoi mali, ma, cessata l'ebbrezza, è più mesto di prima. Galeazzo e Lucia avevano visto a sorgere una nuvoletta nel cielo sereno del loro amore.

Un anonimo foglio, lasciato nella sua tenda da mano ignota, le narrava l'oltraggio fatto dallo Sforza alla fanciulla delli Olgiato, e la morte dell'infelice. Essa allora, che per la scena avvenuta nello studio di Leonardo da Vinci già sospettava qualcosa, pensò di chiedere al Duca la verità.

Lo fece di fatto, dandogli a credere d'averlo udito a ripetere in Milano e tacendo della lettera rinvenuta, per timore ch'egli non si portasse ad atti ingiusti e feroci per scoprire l'autore della rivelazione. Galeazzo, sapendo bene che Lucia non li avrebbe mai perdonato quell'infamia, negò assolutamente. Lo fe' però con tal impeto, con tal prodigalità di parole, che lungi dal distruggere il sospetto nel cuore di lei, lo avvalorò. Lucia, per non turbarlo in quel momento e compro mettere le sorti della guerra, fe' mostra di crederlo. Sorrideva a lui; ma quando era sola pensava e piangeva.

Lo Sforza a sua volta, per quanto l'altra cercasse d'infingersi, s'avvide del cambiamento, e tormentao dalla paura di perderla, viveva in continua angoscia, temeva un nemico in ogni amico. Il Cavaliere della morte li venne in sospetto, voleva che fosse sorvegliato, che lo si costringesse a svelarsi, che li fosse proibito l'ingresso nel campo. Poi revocò li ordini per tema che Lucia li

spiegasse a senso di gelosia e se ne adontasse. Continuarono così ad ingannarsi a vicenda, perchè

l'una e l'altro, quand'erano insieme, si leggevano in cuore, ma non facevano motto delle loro angoscie. Per dimenticarle invocavano il delirio della voluttà, che facendo loro apprezzar vieppiù il tesoro di quell'amore li lasciava in tormento maggiore. Quella sera però Galeazzo, o sentisse più potente l'amore o più doloroso il dubbio, non potè a meno di chiedere all'amata sua se l'amasse ancora coll'istesso trasporto.

– Perchè me lo dimandi tu?

– Perchè voglio che mi rassicuri contro l'anima mia

turbata dal dubbio.....

– Le mie braccia non ti strinsero con ardente tras

porto? Non togliesti sui miei labbri lunghi ed arden

tissimi baci? Non si confusero i palpiti veementi dei

nostri cuori? Se tua non fosse internamente l'anima mia,

tuo non sarebbe il mio corpo. Perchè dubiti dunque?

– Tu mi sospettasti reo d'una colpa!

– Quale?

– Che, trascinato com'era un tempo dal turbine di

male passioni, portassi onta al nome delli Clgiato.

– Altri t'accusano, o Galeazzo, non io.

– Perchè lo ripetesti a me?

– Per conoscere la verità.

– E la mia risposta non ti rassicurò?

– Sì, perchè tu non puoi ingannarmi.

Così dicendo lo fissò con guardo soave ed investigatore ad un tempo. Alle parole di lei il cuore dell'amante fu scosso dal rimorso. Nè egli fu da tanto da far che l'interno turbamento non li trasparisse sul volto. Lucia comprese che aveva dinnanzi il carnefice della fanciulla a lei così diletta. Il dolore stava per farle dimenticare la riserva impostale dalle circostanze e spingerla ad amari rimproveri, quando Galeazzo, dopo alquanto silenzio, riprese:

– Il delitto che mi si attribuisce è per verità orribile.

Non v'è ferocia nè brutalità che valga a farlo scusare. L'uomo che lo commise deve piangerlo a calde lagrime, dovrebbe offrire a Dio la sua vita perchè quell'infamia non fosse stata commessa, se a distruggere il passato non fosse impotente la stessa onnipotenza divina. Vorrei che quel reo si confessasse, che palesasse la sua colpa; ma non ne ha forse il coraggio, forse ne prova troppa

vergogna, forse egli ama, come amo io, e teme di perdere la felicità che forma la sua esistenza.

Il lettore avrà indovinata l'intenzione dello Sforza. Parlando così egli aveva voluto, senza accusarsi aperttamente, far comprendere all'amata sua la verità e la ragione che lo induceva a tacerla.

Lucia aveva molta intuizione e comprese: avea molto amore e rispose:

– Se quell'uomo è sinceramente pentito dell'infamia commessa per scellerato istinto, per malvagi consigli, s'egli si nasconde per vergogna del mondo, per amore della sua donna, vorrei poterli perdonare, il dolore profondo che m'arrecò , immolando quella creatura così bella e cara.

– Tu piangi, Lucia?

– L'amava tanto, ed è morta.

– Tu piangi!... Oh quanto devi odiar l'assassino!

– No, Galeazzo, odiare non posso.

– Ma quand'anco tu lo potessi, non giungeresti mai ad esecrarlo com'io lo esecro. Come fuori di sè, egli andò per uscire. Lucia balzò dal letto, e raggiuntolo, lo abbracciò, rimanendo lungamente stretti in amplesso, senza profferir parola.

Galeazzo tornò sconfortato nella sua tenda. Lucia rimase, e dopo aver avvolto il nudo corpo in una bianca vestaglia, si gettò nuovamente sul letto piangendo. Piangeva perchè dalla rosa dell'amor suo era caduta la prima foglia sulla tomba della Clelia Olgiato. Stette alcun tempo seduta sul letto, immersa in quel tetro pensiero. Poi levossi agitata, e presa una coppa d'oro ch'era sul tavolo, bevette alcuni sorsi d'una bevanda. Uscì quindi per respirare la brezza notturna. Era quello un ccampamento militare su cui dicotoma splendeva la luna, tra miriade infinita di stelle. Entro le tende, che si stendevano come un bianco tappeto a' piedi del rialto dov'era Lucia, stavano uomini siti bondi di sangue, e pronti a vivere o a morire trucidando. Eppure, quanta pace diffondeva d'intorno la

tranquillità della notte.

Si vedevano vagare qua e là dei luminelli. Erano le lanterne appese alle picche dei soldati che facevano la ronda. Il venticello mormorava dolcemente fra i rami. Di tratto in tratto dalle chiesette sparse nella campagna s'udivano i rintocchi delle ore. A queste dai spalti del castello, che bruno si disegnava sull'orizzonte, dalle trincee, che circondavano il campo, rispondeva il monotono e lungo all'erta delle scolte. Riposa tranquillo, dicevan quelle fiammelle, v'è chi ti protegge.

Riposa tranquillo, dicevan quelle campane, il giorno è lontano.

Riposa tranquillo, dicevan quelle voci, veglia per te il soldato. La calma, come fata benefica, volava di tenda in tenda, e colla sua magica verga ne discacciava i sinistri presentimenti. Lucia, sempre assorta davanti a quella scena di quiete, senti a poco a poco un grave sonno pesare sulle sue

palpebre, senti confondersi le idee nella mente. Rientrò nella tenda e coricatasi sul letto, s'addormentò. Poco dopo s'aprirono pian piano due cortine, che dal l'alcova mettevano nella tenda della fantesca, e questa s'affacciò additando la sua Signora ad un uomo coperto d'armatura.

Questi, camminando a pian passo, si accostò al letto, sollevò sulle braccia la dormente e tornò ad uscire. La fantesca andò a prendere la coppa d'oro, e versato in terra il resto della bevanda, la ripose sul tavolo e disparve.

 

LI AMICI NEL CAMPO NEMICO

 

Se per li impazienti è pigro il tempo, per li ambiziosi che aspettano un trono cammina alla ritrosa.

Sembrava al Moro che i suoi partigiani pensassero più ai propri interessi che ai suoi, e se ne lamentava per iscritto, or col Sanseverino, ora con Bernardino Corte, ora con Donato Raffagnino.

Di fatto costoro dapprima agivano con energia, vedendo il Duca scavarsi da sè stesso l'abisso colle sue crudeltà e possibile il trionfo di Lodovico. Ma poi le cose avevan cangiato d'aspetto, mercè l'influenza benefica della Contessa di Melzo. Galeazzo era divenuto mite e giusto, prediligeva i suoi veri amici, non gravava più tanto il popolo coi balzelli, la plebe era soddisfatta, era affezionato l'esercito, ed essi un po' per iscoraggiamento, un po' per egoismo, si godevano il bene presente, non

preoccupandosi più tanto dell'avvenire. Dichiarata la guerra contro Carlo il Temerario e l'Arcivescovo di Ginevra, Roberto Sanseverino, per non inimicarsi Lodovico il Moro, lo assicurava che verrebbe questa condotta in modo da nuocere alla fama di Galeazzo, e perderlo nella stima del popolo e dell'esercito. La risposta fu un colpo di folgore pei traditori. Il Moro rispose non fidarsi più a siffatte promesse, avvertendoli che altri partigiani più risoluti di loro stavano spianandoli il cammino per giungere alla meta dei suoi desideri. Essi, che ignoravano la corrispondenza dell'esule con Cola Montano, come questo nulla sapeva di loro, non volendo Lodovico imbrogliare le fila della sua trama, si trovarono sgomenti.V'era dunque il pericolo di veder presto cinto il proscritto della corona ducale, premiati altri, ed essi posti in non cale, se non puniti. Convennero dunque di tentar qualcosa per riacquistare la benevolenza di Lodovico.

Col pretesto di prender per fame il castello di San Germano, essi lasciavano inoperoso l'esercito.

Galeazzo, immerso nell'amore, apprezzava più i loro consigli, che quelli d'altri capitani che lo spronavano all'assalto. Si mormorava nel campo, si mormorava in Milano. Tutto ciò assecondava a meraviglia i loro tristi progetti, ma non era bastante. Poteva il Duca da un giorno all'altro cangiar d'avviso, tanto più che alle ardimentose esortazioni del Marchese di Mantova, di Donato del Conte, del Signore di Ventimiglia e d'altri, venivano a far eco Gian Jacopo Trivulzio e la stessa Lucia.

Il Sanseverino, per quanto ascendente avesse sul Duca, vedeva sempre più difficile l'ostinarsi nell'inazione, senza essere tacciato d'inetto o di traditore. Bisognava dunque tentare un gran colpo.

Quei malvagi non sapevano dove darsi del capo, quando una strana congiuntura venne in loro soccorso. Il Trivulzio aveva detto pubblicamente essergli doloroso che un onorato esercito dovesse combattere contro soldati capitanati da un Conte di Campobasso, che più di traditore aveva fama, che d'intrepido guerriero. Il Conte lo seppe, e una mattina presentossi un suo uffiziale al campo e chiese di rimettere un plico a Gian Jacopo, che lo fe' introdurre nella sua tenda e gli doImandò chi fosse.

– Sono Felice Birago, uffiziale del Duca di Borgogna, e vengo a recarvi questo cartello di sfida da parte del Conte di Campobasso, comandante il presidio di San Germano.

Gian Jacopo dissigillò il foglio e lesse:

 « Conte Giovan Jacopo Trivultio.

« È venuto a mia cognitione come voi avete osato de

« chiamarme traditore et vile. Ora intendo de provarve

« che voi vi sete portato vilmente in farmi questa in

« giuria; e per obviare a le parole et levarne la occa

« sione di dispute sopra la elettione delle armi ve mando

« tre campi liberi e franchi a tutto transito, perchè voi

« ne cappiate uno a vostra scelta.

« Se trascorsi giorni quindici dalla data di questo

« scritto, i duo eserciti non saranno venuti a battaglia,

« noi ci incontreremo coi nostri compagni nel logo et

« ora che a voi piacerà. E se prima se verrà a battaglia,

e cercheremo de scontrarci nella mischia o dopo la vit

« toria. Quale spero nell'altissimo sarà propizia all'ec

« celso Duca nostro Carlo de Borgogna, et così potrò

« vendicarme, come conviene a l'honor mio, a la pre

« sentia del Signor Sforza, mio pregioniero, et della sua

« bella, che sarà mia schiava.

« Di San Zermano alli XX de ottobre MCCCCLXVI.

« Io Ugo, Conte de Campo Basso, affermo quanto di

« sopra si contiene.

« Io Felice Birago fui presente a quanto di sopra è

scritto. »

« Io Antonio di Gherenstein fui presente a quanto di

sopra è scritto.

« Io Marco Soranzo fui presente a quanto di sopra è

« scritto. »

 

- Troppo presume questo Conte di Campobasso, disse sogghignando il Trivulzio. Andate messer Felice Birago, e ditegli che domani avrà la mia risposta. Il messo parti e il Trivulzio recossi dal Duca per chiedergli il permesso d'accettar la disfida. Galeazzo acconsentì, purchè la partita d'onore fosse rimessa al giorno della vittoria. Gian Jacopo fe' venire a sè Donato del Conte, il Conte

Pietro dal Verme e Bernardino Corte, e in loro presenza scrisse la seguente risposta:

«Signor Conte de Campo-Basso.

« A XX del presente mese di ottobre, il Signor Felice

« Birago, come mandatario vostro, mi appresentò un

« vostro cartello di XIX ottobre presente, insieme con

« quattro patenti di campi e con termine de hore vin

« tiquattro, a dover rispondere al cartello, e risolvermi

« sopra le patenti. Perchè hora vi dico, come dopo le

« due sconfitte subite dal Duca di Borgogna a Gremson

« e a Marat, tutti ve accusino de servire a li interessi

« del Re Luigi di Francia, più che a quelli del vostro

« Signore, et che se dice pubblicamente che voi avete

« fatto proposta de dare il Duca in potere del Re, et

« che io potrei refiutarme de venire a tenzone con chi

« ha fama de traditore. Ma perchè l'animo mio desidera

« de venire ad honorata conchiusione, vi risolva ch'io

« accetto il combattere con voi, ma dopo la vittoria

« come è volere dell'augusto Duca Sforza. Quel giorno

« stesso, sa saremo vivi, me troverete alle Cassine di

«Stra, per difendere che nelle cose passate, tra noi ho

« fatto quello che mi si conveniva, e a questo fine vi

« mando la lista delle armi, delle quali vi haverete a

« provvedere.

« Dal campo di San Zermano, addì XXI ottobre

MICCCCLXVI.

« Io Giovan Jacomo Trivultio affermo quanto di sopra

« si contiene.

« Io Donato del Conte fui presente a quanto di sopra

« si contiene.

« Io Conte Pietro dal Verme fui presente a quanto

« di sopra si contiene.

« Io Bernardino Corte fui presente a quanto di sopra

« si contiene. »

 

LISTA D'ARMI PER LO GIORNO DELLA BATTAGLIA.

 

« Vi provederete di tutte armi da huomo d'arme con

« pezzi doppi. Di tutte armi alla leggiera. Di tutte armi

« da fante a piedi e che si possono usare tanto di piastre

« e lame, come di maglia e particolarmente vi provederete di doj guanti di maglia destro e sinistro che armino fino al nodo della mano. Di doj altri che s'armino fino al cubito. Appresso vi provederete d'un pajo di maniche di maglia con lunette che armino fino alla metà del petto. Ancora vi provederete d'un corsiero colla sella arcionata da guerra, imbardato, con testiera di acciaio, senza corno, e con collo di maglia, e con petto; girello e fiancaletti di maglia. Di uno cavallo genetto con sella e con guarnimenti alla genetta, con testiera d'acciajo, con corno di uno palmo e armato il

collo e tutta la parte destra di maglia. Di uno curtaldo di altezza di cinque piedi e mezzo in giro con testiera di acciajo, senza corno, col petto armato di bardi e col collo d'acciajo. Et vi provederete di selle basse per li sovradetti cavalli. Et in generale vi provederete d'ogni

« sorta d'armi, così di quelle che s'usino, come di quelle

« che si possano usare.

« Oltra di queste cose mi riservo ancora ragione di

« combattere in tutto o in parte le armi da piedi a

« cavallo e quelle da cavallo a piedi, e quelle de l'uno

« e l'altro cavallo e di aggiungere, minuire, alterare,

« bastardare, fibbiare, annodare, sciogliere, inchiodare e

« dischiodare, trarre e rimettere, e di dar io delle altre

« armi, secondo che a me più parerà e piacerà, usate e

« non usate. Protestandovi che per non haver a perder

« tempo il di destinato al combattere in termine di tre

« giorni, dopo la data del cartello, col quale questa lista

« vi sarà presentata, dobbiate havermi mandato qui in

« campo la misura di tutta la persona vostra da capo a

« piedi, di membro in membro, così della lunghezza

« come della grossezza, acciò che io vi possa far provi

« sione di quelle armi da difesa, che a me parrà di por

«tare anche per voi. E non mandando voi in detto ter

« mine pretenderò che il tempo che decorrerà per tal

« cagione (se alcuno ne correrà) corrà a vostro danno.

Le armi da offesa porterò io per voi e per me. »

Bernardino Corte chiese di portar esso la risposta, mostrandosi animato da odio grandissimo contro il Conte di Campobasso, e da ardente desiderio di vederlo punito per tanta audacia.

Il nome della Contessa di Melzo, gettato a caso nella sfida del Capitano nemico, era stato per quel tristo una rivelazione. Il Conte di Campobasso non sdegnerebbe per certo d'avere in sue mani quella donna bella e possente. Egli potrebbe costringere il Duca a levar l'assedio e ricondurre l'esercito a Milano, colla promessa di resti tuirla a lui, oppure ucciderla se si continuasse la guerra. Galeazzo, in preda al dolore, alla gelosia, acconsenti rebbe per certo di por fine all'impresa. Ecco disanimato l'esercito; ecco i popoli di Lombardia frementi pel disonore delle loro armi. Lodovico il Moro

non potrebbe desiderare di più, nè avrebbe che a presentarsi al campo per essere acclamato Duca di Milano.

Il porre ad esecuzione questo progetto non sarebbe cosa malagevole. La fantesca della Contessa era giovane di fama assai dubbia, a quanto asserivano alcuni uomini d'arme. Il versar del narcotico in una bevanda non era grave delitto, ed essa facilmente, coll'esca d'una mercede, eseguirebbe l'incombenza. Quanto al Conte di Campobasso non avria che a spedire nelle vicinanze del campo cinque o sei dei suoi stradiotti. Bernardino Corte trovò il suo progetto sublime, ed andò subito a comunicarlo a Roberto Sanseverino. Se questi lo approvasse è inutile il dirlo. Convennero dunque che all'indomani, quando il Corte si recherebbe nel castello di San Germano per portarvi il cartello del Trivulzio, farebbe la proposta a Marco Soranzo, persona di sua conoscenza. Questi, senza svelare da chi venne fatta, ma appropriandola a sè stesso, dovrebbe indurre il Campobasso

ad accettarla, mostrandoli tutto il vantaggio che poteva ritrarne.

Così fu fatto. Bernardino Corte presentò la risposta, quindi s'intrattenne da solo a solo col Soranzo, dandogli ad intendere che nessuno dei capitani sforzeschi era persuaso di quel l'impresa, alla quale, per farla da eroina, la Contessa aveva spinto il loro Signore. L'uffiziale borgognone, sia credesse in realtà alle asserzioni del Corte, sia che non volesse darsi la pena d'investigare il vero movente di quella proposta, giurando che qualunque fosse l'esito non lo avrebbe tradito mai, rispose sorridendo:

– Una così bella donna ci farà passare la noia di questo lunghissimo assedio. Stabilirono che se alla notte seguente, un'ora dopo il tramonto del sole, vedrebbero dal campo agitarsi una fiaccola sulle mura del castello, quello sarebbe il segnale che il Conte di Campobasso aggradiva il regalo, e che

alla mezzanotte del posdomani i stradiotti si troverebbero presso la cappelletta di Regina-Coeli.

Tornato al campo il Corte, e fatto il rapporto di tutto al suo complice, non stettero lunga pezza a studiare il modo per rapire la Contessa.

Uno degli uomini d'arme che serviva nella compagnia di Roberto Sanseverino, certo Barnaba da Lodi, giovane d'atletiche forme, era l'amante in titolo della Lena, senza pregiudizio degli altri. Potevano essi intendersela a meraviglia. La fantesca non aveva che a versar un po' di narcotico nella bevanda preparata ogni sera per la sua Signora. Egli non doveva che cavar da terra alcune asse

della trincea, in parte ove questa era meno sorvegliata, e dalla tenda trasportar la dormente sulle braccia fino alla cappelletta.

La cosa si faceva alla chetichella, ed essi potevano o svignarsela, traversando la Dora Baltea, o restar anco, poichè nessuno avrebbe sospettato di loro. Barnaba accettò senza tanti complimenti, la fantesca si lasciò tirare un tantino la calza, ma poi acconsentì. Tanto l'una che l'altro però vollero che la somma fosse arrotondata d'altri dieci ducati a testa per fare il viaggio, avendo trovato più prudente di lasciare il campo, appena compita la faccenda. Come vedemmo, essi furono esatti.

Vediamo ora se furono ben spesi i sessanta ducati di Lodovico il Moro. Barnaba da Lodi discese fino alla trincea in parte ove avea divelto da terra le asse, la trapassò, e fatti ancora alcuni passi, trovò quattro cavalieri presso la cappelletta di Regina-Coeli. Erano i soldati stradiotti della compagnia del Conte di Campobasso. Mentre il soldato consegnava a costoro la dormente,

s'avvidero che cominciava a destarsi. Quello che l'aveva adagiata davanti a lui sull'arcione,

sostenendone col braccio l'imbusto, spronò il cavallo per spingerlo alla corsa. L'animale fe' alcuni balzi, che svegliarono del tutto la Contessa.

Trovandosi in braccio a quell'uomo, in quella positura, mandò un grido, e, a rischio di rimanere schiacciata dalle zampe degli altri tre cavalli, si gettò d'arcioni. Fortuna volle che rimanesse in piedi, ma barcollante com'era, non potè tosto darsi alla fuga e fu nuovamente afferrata. Opponeva l'intrepida donna una resistenza disperata, quando due guerrieri, che si nascondevano dietro la

cappelletta, saltarono fuori e si lanciarono in mezzo ai rapitori. Erano il Cavaliere della morte ed un suo scudiero. Il soldato che aveva rapita la Contessa si diede tosto alla fuga, e i stradiotti cominciarono a difendersi contro li inatesi aggressori.

L'ascia e la mazza, di cui questi erano armati, per cuotevano con tal impeto, con tanta forza e destrezza, che il resistere loro riusciva difficile a quei mani goldi. Uno cadde a terra fulminato da un colpo che gli aveva fracassati l'elmo e il cranio. La coraggiosa Lucia, che non era fuggita per non

abbandonar quei generosi accorsi a salvarla, tolse al morto la daga e cominciò a combattere  anch'essa.

– No, fuggi! le gridò il Cavaliere, che in quel momento avea fatto stramazzar col cavallo un secondo stradiotto, mentre lo scudiero d'un colpo d'ascia mutilava il braccio d'un terzo.

Questi, bestemmiando dal dolore, ficcò i sproni nel ventre del cavallo e fuggì. Li altri due lo imitarono, lasciando in balia del vincitore il compagno, senza curarsi se fosse vivo o morto Il Cavaliere della morte prese allora per mano Lucia, che al suono della sua voce era rimasta immobile e lo fissava sorpresa.

– Ma chi sei tu ? li dimandò con voce affannosa. L'altro tacque e proseguì verso il campo, tenendola

sempre per mano senza risponder mai alle domande che li rivolse durante il tragitto. Giunti che furono alla tenda, le pose in dito un anello, la strinse fra le sue braccia e fuggì via. Essa rimase alcun tempo come trasognata. Poi si scosse e mormorò fra sè: – È impossibile!

Corse quindi nella tenda del Duca. I due uomini d'arme ch'erano di guardia, quantunque

inusitata visita fosse quella, la lasciarono passare. Galeazzo, ch'erasi da poco addormentato, fu desto

da lei. Ancora tutta ansante, li narrò l'accaduto. Tal ira colse lo Sforza che fe' squillare le trombe e

levare in armi l'esercito. Indarno Lucia tentò calmarne l'impeto ed indurlo a più prudente consiglio; esso non volle ascoltar ragione, deciso a sacrificar, se occorresse, mille innocenti, per punire il colpevole. Chiamati tutti i capitani, ordinò che si perlustrasse il campo, che si cercasse in ogni tenda, s'interrogasse ogni soldato, che fossero appesi alle forche li uomini d'arme ch'erano di sentinella alla tenda della Contessa, alla sua e alle trincee, che l'incognito difensore fosse chiamato a render conto, com'egli si trovasse là, e mille altre stranezze. – Nulla di tutto ciò, disse Lucia con piglio risoluto. È mio dritto d'investigar chi m'offese, ne lo cedo ad alcuno.

– Madonna, io solo sono qui giudice e Duce.

– Giudice, se tu ami la giustizia, ascolta le discolpe prima di condannare. Duce, non massacrare quei prodi che offrono la vita per la tua gloria. Cavaliere, non ricambiare coll'oltraggio la generosità d'un eroe.

– Volete dunque, o Contessa, riprese il Duca con amara espressione, che io per farvi cosa gradita lasci impunito un delitto?

– Non lo dovete , o Duca , entrò a dire Roberto Sanseverino, danneggiereste alla disciplina dell'eser

cito. Il rigore, anco eccessivo, l'afforza, la mitezza l'affievolisce.

– Questo che voi date non mi par savio consiglio, o capitano, disse il Trivulzio fissandolo bieco.

– Oh sì, interruppe il Duca, parla, parla tu mio Gian Jacopo.

– S'appoggino le scale alle mura di San Germano,

si scavalchino quei merli, e là troveremo chi volle rapirla Contessa. -

– Per la croce di Dio, tu hai ragione, o diletto mio! Capitani, fra tre ore spunterà l'alba, tutto sia pronto per l'assalto.

Il Marchese di Mantova, Guglielmo di Monferrato, il Conte di Ventimiglia, il Conte dal Verme, Donato del Conte furono tutti lieti di questa risoluzione e ne ringraziarono il Duca, che l'aveva presa e il Trivulzio che l'aveva provocata. Solo Roberto Sanseverino e Bernardino Corte se ne mostrarono rammaricati, e tentarono qualche osservazione in contrario; ma dovettero chinare il capo ad un voglio così, che tuonò sulle labbra del loro Signore. Partiti i capitani, Galeazzo rimase assorto colle braccia conserte al petto e il capo basso. La Contessa se li avvicinò dimandandoli amorosamente se fosse rammaricato con lei.

– Per verità, Lucia, rispose, tu abusi dell'impero che hai su me. – Sì, quando si tratta del tuo bene e della tua gloria.

– In presenza de' miei uffiziali non dovevi parlarmi così.

– T'avevo prima supplicato, ma tu non mi volesti ascoltare; non mi restava dunque che la violenza per risparmiarti atti ingiusti e crudeli.

— Cosa diranno di me?

– Oh l'egoismo degli uomini! E quando venni a Genova per salvarti, quando venni a Pavia per assecondare un tuo desiderio, quando t'ho seguito al campo, ho forse pensato a ciò che di me si direbbe? Quello stesso amore che circonda la tua fronte coll'aureola d'amante felice e di Principe generoso, imprime sempre più sulla mia il marchio della druda....

– Oh non profferire tale parola ! interruppe lo Sforza.

– Eppure è così. Vuoi tu sapere cosa penseranno ora quei condottieri? Penseranno che tu per far cosa gradita a me usasti clemenza, che ti prepari a vendicare l'oltraggio come si conviene a grande capitano, e che ti degnasti d'onorarmi troppo.

– Li vidi però meravigliati, sentendoti a parlare con tanta alterezza.– Tu credi che io abbia voluto umiliarti; se ciò fosse hai un'opinione ben trista d'entrambi. È l'artifizio della donna volgare che abbatte li uomini da poco. L'amore come il mio adora e non avvilisce, guarda con orgoglio alla superiorità dell'uomo amato, nè aspira ad altro merito che di conservarlo grande e felice. Credi ancora che io abbia potuto mentir questa sera ai miei sentimenti ?

– Perdonami, Lucia, ma se tu sapessi quale tempesta

io provo nella mente e nel cuore. Veggo pur troppo quanti occulti nemici io m'abbia d'attorno. Giunsi ormai a diffidar del mondo intero; mi si vuol togliere la felicità ch'è tutta in te; forse s'attenta al mio trono, alla mia famiglia, alla vita......

– Galeazzo mio, non lasciarti sopraffare da idee si lugubri.

– Un fatale presentimento s'è impadronito di me.

– E non vedi invece che una stella ci protegge. Volevano rapirmi a te, e il reo disegno andò a vuoto.

Qui la Contessa voleva ricordare il soccorso prestatole dal Cavaliere della morte, ma tacque.

Ormai non v'era più dubbio. Quello sconosciuto, chiunque si fosse, l'amava. Lo Sforza lo sospettava forse ancor esso. Era prudenza dunque il non destar, come suol dirsi, i cani che dormono.

Vana precauzione, perchè il cane erasi già destato.

– Quella maschera di ferro non mi va a genio, egli disse: se s'occulta avrà le sue ragioni. Scommetto ch'è innamorato di te. Se il Duca si fosse arrestato a queste parole, Lucia avrebbe dovuto mentire, evitando cosi sospetti e guai, ma per buona sorte continuò con sarcasmo: – Scommetto ch'egli ti fece rapire per avere la gloria di salvarti.

– E non sentisti dal Trivulzio che il mio rapitore è nel castello?

– È una semplice induzione.

– È una verità. I soldati erano stradiotti.

– E come entrarono in campo?

– Questo non so. Ti dissi ch'io dormiva, e d'un sonno così profondo che mai l'eguale, e quando mi destai era fuori della trincea, distesa sopra un cavallo, chi sa.... forse.... Vieni con me nella mia tenda.Come vi furono, andò ad osservare la coppa d'oro, e si turbò vedendola vuota.

– Cos'hai? le chiese lo Sforza.

– Qui v'era una bevanda, la bevvi in parte.... Chi ne gettò il resto?... Suonò un timbro d'argento: nessuno comparve. Andò nella tenda della fantesca: era vuota, ed essa fu invano cercata in tutto il campo.

– Non v'è più dubbio, esclamò Lucia: la traditrice fu Lena, che mi versò del narcotico.

– Ma di trasportarti poteva essa avere la forza? Un complice nell'accampamento l'ebbe per certo.

Si seppe dopo che un soldato era scomparso, ma nè questi, nè la fantesca, malgrado le più scrupolose indagini furono più rinvenuti. Essi navigavano sopra una barchetta alla volta d'Ivrea.

 

V ITTORIA E TORMENTO

 

Tutti i bei progetti di Bernardino Corte erano andati a soqquadro: avevano anzi avuto un esito ch'era il perfetto rovescio delle sue speranze: e tutto per l'indiscrezione d'uno stradiotto. Prima di recarsi alla cappelletta di Regina-Coeli, i quattro soldati del Campobasso, destinati al rapimento della Contessa, s'erano fermati in un'osteria a bere.Un d'essi, alquanto brillo e piuttosto ciarliero, aveva

preso a chiacchierare con uno sconosciuto, che lo ascoltava più annoiato che soddisfatto. Quando però lo stradiotto nominava la Contessa di Melzo, l'altro diveniva ad un tratto più cortese. Dava

da bere al soldato, s'interessava a' suoi discorsi, alimentava la conversazione con dimande ed osservazioni.

Bevi e dimanda, dimanda e bevi, poco dopo, conscio di tutto, correva ad un casolare poco di là discosto. Ivi alloggiava il Cavaliere della morte, e a lui narrava, come quella stessa notte, alla cappelletta di Regina-Coeli verrebbe condotta la Contessa di Melzo e consegnata ai stradiotti del Campobasso.

– Andremo insieme a salvarla, aveva risposto il guerriero. E sorta appena la notte, camminando fra siepi e ma golati per non essere visti dai stradiotti, erano andati a nascondersi dietro la cappelletta.

Ora che al lettore è noto quest'ultimo mistero, torniamo nel campo, ove l'esercito si prepara all'assalto. Appena cominciò a sollevarsi da oriente la nera cortina della notte, e si diffuse sul creato il roseo crepuscolo dell'aurora, si videro a formicolar pel campo uomini d'arme a piedi e a cavallo, corsieri e giumenti, portati a mano, artiglieri che trascinavano sagri, colubrine, cannoni e falconetti, balestrieri carichi di balestre, frombolieri che preparavano corde e sassi, altri che trascina vano scale, baliste e catapulte, capitani che percorrevano il campo incoraggiando i soldati, radunando le

compagnie. Il rumore udito durante la notte nel campo sforzesco dopo il ritorno dei malconci stradiotti, aveva dato l'all'erta al presidio borgognone. Il primo barlume del giorno trovò le mura di San Germano coronate d'armati. Nell'interno li abitanti, giovani e vecchi, costretti dalla forza, approntavano le freccie, le aguzzavano, trascinavano massi e travi, stempravano calce viva, accendevano fornelli per farvi bollire olii e metalli. Immaginiamoci con qual cuore quei poveri borghigiani s'adoprassero a preparare istromenti di morte per quei generosi che venivano a difendere i dritti del loro Duca contro l'usurpatore straniero. Spuntava il sole, quando da una parte, ove l'acqua del fosso era meno alta e più bassa la torre, si portavano le compagnie di Roberto Sanseverino, del Marchese di Mantova e del Conte di Ventimiglia, e i primi proiettili andarono a colpire le mura.

Dalle bastie un nembo di freccie miste a palle di spingarde, risposero a quell'invito. In un istante la scena divenne terribile. Come stormo d'augelli, traversando le immense spire di fuoco che s'ergevano al cielo, passavano in aria sibilando ferri e pietre. Allo scricchiolar delle catapulte

e delle baliste, al tuonar de' cannoni, agli urli feroci dei soldati, alle grida dei feriti, al suono dei pifferi e delle trombe che s'udivano nel campo, rispondevano dal castello lo stormeggiare delle campane, il fracasso dei tetti che crollavano, e le strida degli abitanti spaventati.

– All'assalto! All'assalto! s'udì finalmente gridar da più parti. Da vari lati allora, come torrenti di ferro, si gettarono nei fossi i soldati dello Sforza. Da quella massa d'uomini sorse improvvisamente una selva di scale, e in un istante la distanza tra piuolo e piuolo scomparve sotto uno strato 'acciaio. Dai merli cominciarono a piovere sugli assalitori massi enormi, travi, fusi metalli, olio bollente. Mentre dall'alto s'applaudiva con risa e scherni al colpo micidiale, s'udivano nel fosso li urli strazianti delle vittime peste e rosolate. L'ardore però non diminuiva nei Milanesi; i vuoti si

riempivano tosto, e i soldati, facendosi riparo al capo colla rotella, colla spada tra i denti, continuavano a salire. Ve n'eran di quelli che, non trovando posto per le scale, cercavano d'aggrapparsi ai fori e ai sporti delle mura. Tra questi v'erano molti dei caduti che si rialzavano malconci, ma non scoraggiati. Quantunque le file dei Borgognoni cominciassero ad assottigliarsi, non diminuiva però in essi il coraggio della disperazione. Roberto Sanseverino, approfittando d'un momento, che a lui parvero li assalitori stanchi e tranbasciati, andò al Duca e li chiese se volesse ordinar la raccolta per non fare nuove vittime inutilmente. Galeazzo, chiuso in ricca armatura, con un elmetto coperto di velluto rosso, da cui li scendeva sulle spalle la capellatura bionda, montato su magnifica chinea tutta rivestita di maglia d'acciaio, stava a poca distanza dal luogo del combattimento.

Lucia aveva rifuggito dall'assistere al tremendo spettacolo, e se ne stava nella sua tenda. Mentre il Duca e il suo capitano stavano deliberando insieme sul da farsi, Gian Jacopo Trivulzio, che forse

aveva preveduta l'intenzione del traditore, si fe'a gridare ai soldati:

– Guerrieri lombardi, per la gloria di Sant'Ambrogio, per l'onore del Duca nostro, avanti, avanti! Che sventoli presto su quelle mura l'impresa dell'acqua e del fuoco. Sua Magnificenza non sarà avaro d'onori e di premi con quei prodi che arriveranno pei primi sul l'alto di quei spaldi. Avanti! Avanti! L'udì il Sanseverino e, raggiuntolo, li disse con piglio severo:

– E chi dà il dritto a voi d'arringare i soldati come se foste il loro condottiero?

– Me lo dà l'onore delle armi lombarde. Se io fui ciarliero, son troppo muti li altri. Roberto sentì il rimprovero, e con ironia riprese:

– Invece d'esortare li altri colle parole, fareste meglio a dar loro l'esempio. Ferito da questo sarcasmo, il Trivulzio rispose con impeto:

– Ove la calca dei soldati non me lo avesse impepito, io sarei già sull'alto di quelle mura.

Roberto, sicuro che non li sarebbe riuscito, e comtento d'umiliare quell'uomo odiato, ordinò che si sgombrasse una scala e fosse lasciata libera pel Trivulzio. In un lampo, tolta una bandiera, Gian Jacopo discese nel fosso, e camminando sopra un mucchio di morti e di mal vivi, cominciò a salire seguito da molti valorosi.

– Guarda! Guarda! gridarono dalla sponda del fosso più voci additando alcuni Borgognoni che levavano in alto una trave. L'avviso giunse troppo tardi. La trave cadde sul Trivulzio che precipitò nel fosso. Roberto Sanseverino esultò, i soldati mandarono un urlo di maledizione e s'apprestavano a vendicarlo, quando sano e salvo fu visto l'eroe a salir di nuovo, giungere in cima, aggrapparsi ai merli e piantarvi lo stendardo sforzesco .

Il grido d'acclamazione che surse a quell'atto di valore terminò in grido di terrore. Gian Jacopo precipitava dall'alto colpito dal ferro nemico. Tutti lo credettero morto, e l'ira dei soldati non ebbe

più freno. La voce del Duca gridava vendetta. Tutti, come un sol uomo, tornarono all'assalto.

 In pochi momenti i Sforzeschi furono sulla cima delle mura, e il presidio, inseguito da essi e dai borghigiani armati di spiedi, coltelli, ascie e mazze, si ritirò nel castello, lasciando molti feriti e prigionieri in balìa del nemico. Del presidio non rimanevano che pochi Svizzeri e Tedeschi, che s'arresero a discrezione. Il Conte di Campobasso con alcuni Stradiotti, era riuscito, non si sa come, a fuggire. Il Duca, che riteneva esser lui l'autore del tentato rapimento, ordinò che fosse inseguito dai cavalleggieri. Li comandava Bernardino Corte, che a poca distanza da Trino, incontrossi con Marco Soranzo, rimasto in dietro per essere il suo cavallo estenuato.

– Se tu non desisti dall'inseguire il Conte, noi verremo prigionieri per proclamarti traditore d'amici e

nemici. Queste parole del venturiero veneto significavano che il ratto della Contessa era stato da loro creduto una gherminella per indurre il Duca all'assalto. Il Corte fe' passare per le armi il Soranzo, liberandosi così d'un pericoloso testimonio, e dopo essersi aggirato per vie affatto opposte a quella percorsa dal nemico, tornò al campo ed annunziò che il sopraggiungere della notte li aveva impedito di perseguitare più oltre i fuggitivi. Il Duca entrò trionfante nel castello di San Germano.

Le sue truppe, ripresa lena, mossero alla conquista delle vicine castella, e tutte le ritolsero al Duca di Borgogna. Impauriti allora i più lontani luoghi, mandarono ambasciatori allo Sforza, e tutti, insino alle Alpi, si sotto misero di nuovo al Duca di Savoia. Gian Jacopo Trivulzio, estratto privo di sensi dalle fosse, veniva trasportato nella sua tenda. Galeazzo e la Contessa di Melzo non si allontanarono più dal suo fianco.

– Conservatemi questo prezioso amico, diceva ai cerusichi il Duca, e sarete largamente ricompensati. Occupato il castello dalle truppe sforzesche, Galeazzo vi fe' trasportare il ferito, e volle che lo si adagiasse nel suo stesso letto Appena tornato in sè, quel prode narrò d'essere stato

ferito dallo stesso Conte di Campobasso e chiese contezza di lui. Il Duca rispose che quel venturiero, credendolo morto, ad altro non avea pensato che alla propria salvezza.

– Ebbene, rispose il Trivulzio, se l'ora mia non è giunta ancora, c'incontreremo in Piemonte o in

Borgogna. Malgrado le gravi ferite ed il sangue perduto, si ristabilì in poco tempo.

Quanto severi erano stati i rimproveri detti da Galeazzo a Roberto Sanseverino, altrettanto vive le lodi prodigate al Trivulzio. Ne fremette il primo, ma fremette più ancora quando vide elevato il rivale al grado di capitano d'una compagnia di cavalleggieri, colla promessa di maggiori premi .

Intanto era sopraggiunto il dicembre col suo corredo di bufere e di nevi.

Il Duca stimò prudente di non avventurarsi al passaggio delle Alpi in quella stagione, a stabilì di rimettere alla primavera il proseguimento dell'impresa. Ridotte le truppe ai quartieri d'inverno di Trino, Crescentino, Pontestura, Novara e Mortara, egli parti coi primi capitani per Milano, desideroso di celebrarvi colla sua famiglia le feste del Natale.