I Moti Giacobini del 1790

Siamo nel 1790  sugli echi della rivoluzione francese , le idee rivoluzionarie e d'avanguardia giungono in Piemonte . A Vercelli : Giovanni Antonio Ranza è il principale promotore delle idee giacobine che si propagano sostanzialmente nella classe borghese della città , lasciando praticamente indifferenti le classi popolari delle campagne vercellesi.

San Germano rimase coinvolta da questi fatti in un occasione particolare : di cui ne raccontiamo l'episodio giunto fino a noi da una lettera che lo stesso Ranza scrive al Re Vittorio Amedeo III.

Giovanni Antonio Ranza (Vercelli, 19 gennaio 1741 – 11 aprile 1801) è stato un presbitero e patriota italiano.

Re Vittorio Amedeo III

Antefatti

Sacerdote e professore di lettere, dopo lo scoppio della rivoluzione francese divenne sostenitore dei principi rivoluzionari. Preparò una rivolta a Vercelli; ma, scoperto, riuscì a riparare dapprima in Svizzera (a Lugano) e successivamente in Francia. Nel 1790 Vercelli era forse uno dei centri piemontesi dove più vivamente fermentava una cultura d’avanguardia e d’opposizione. Alcuni membri delle famiglie Alciati, Avogadro e Arborio erano affiliati ad una loggia massonica di Casale Monferrato, dove, oltre all’esercizio della filantropia, si apprendevano le nuove teorie filosofiche e sociali proposte dell’Illuminismo e dall’Enciclopedia; non solo: alla polizia era pervenuta notizia che in un’antica abbazia presso la città si tenevano “segrete adunanze notturne”. Un club giacobino alla moda francese? Chi vi partecipava? Quasi di certo gli affiliati erano bottegai e professionisti malcontenti della supremazia nobiliare e dell’arretratezza feudale in cui versava la pubblica amministrazione. Sta di fatto che in quell’anno Vercelli fu turbata da alcuni episodi d’insofferenza, che costarono quasi un mese di prigione nel castello d’Ivrea ad alcuni borghesi.

Fatti

Alla loro liberazione ci furono manifestazioni di giubilo, che diedero al Ranza l’occasione per il suo esordio politico. Esordio infelice. Il Ranza non capì niente della situazione; non capì né quale capacità di reazione avesse ancora il governo, né che il popolo vercellese, anche se progressista in qualche ristretto ceto, era ancora immaturo per un’insurrezione. Alla fine dovette fuggire a Lugano, iniziando una vita avventurosa di idealista entusiasta ed indomito. Purtroppo tutta l’attività rivoluzionaria del giacobino vercellese fu sempre improntata ad una quasi totale mancanza di senso della realtà, e quindi fu sempre fallimentare. Colto, genialoide, attivissimo e buon oratore, aveva il difetto capitale di essere entusiasta delle proprie opinioni e di considerare pochissimo quelle degli altri; nella velleità di conciliare il giacobinismo con il cristianesimo sovente manifestava idee non sempre ben accette nell’ambiente politico-culturale che lo circondava, in più aveva uno spirito temerario, che si accompagnava ad un carattere irascibile e stravagante. Nell’ottobre del 1790 il governatore di Vercelli lo descriveva come “persona senza giudizio, di testa calda e ardente, di penna e di lingua pungente”.

La lettera e la cronaca

 « Eccellenza! Ora che il successo coronò pienamente le giustificazioni dei nostri supposti sediziosi, e di tutta la cittadinanza vercellese, da me fatta a V. E. nel breve colloquio della mattina del giorno dieci del corrente, alla presenza del canonico Degiovanni, il mio patriottismo non sa dispensarmi dal terminare il quadro che allora potei appena abbozzare, e così contrapporre un generale ritratto vero a quella dozzina di falsi ritratti particolari e grottesche caricature a lei colorite da un maligno pennello per invidia e malvolenza del nostro ordine cittadinesco.

» La nuova che il real senato avesse dichiarato assolti senza veruna spesa i nostri detenuti, e la conferma immediata fattane dal Re col titolo a' medesimi e alle città tutte di sudditi fedeli e ben amati, insieme alla benigna assicurazione di non obbliar questo affare pei danni economici dei rispettivi individui, è stata una scossa elettrica, la quale dissipò ad un tratto dalla nostra città la nube

Ma intanto, o di buon grado, o chiamatovi, veniva a Torino, ove forse meditò quella migrazione, che nello stato de' suoi rapporti col governo, sola poteva convenirgli. Ed invero il 28 dicembre il Mossi scriveva, che eccettuati i primi giorni del suo ritorno a Vercelli in cui erasi lasciato vedere in pubblico e ne' soliti ritrovi, da qualche tempo stavasene ritirato « nè sentiva che rinnovasse le sue pazzie per metter sossopra quel popolo contro la nobiltà ». di diffidenza, di silenzio, di malinconia, che amareggiava da un mese gli animi dei cittadini e vi fece tosto succedere una espansione di cuore, una serenità di volto, un trasporto di gioia universale, manifestatisi quindi col massimo dell'entusiasmo all'incontro della sera del loro arrivo, il quale fu veramente un solenne trionfo. La mattina del 26 partirono per tempo alcuni cittadini con tutta celerità per trovarsi in Ivrea all'arrivo della posta delle lettere, e ad aiutare con le proprie mani ad aprire le carceri ai cari loro concittadini. Solo pochi minuti tradirono i loro voti, i quali andavano dal governatore a intendere gli oracoli di giustizia e degnazione sovrana. Partiti dopo breve ora da Ivrea, ebbri di gioia per l'accoglienza e parlata del governatore, accompagnati dalle più onorifiche ed espressive dimostrazioni a nome del Re, s'avviarono verso la patria fra gli evviva degli ospiti stessi non volontari, a cui contraccambiarono ben volontieri le benevoli felicitazioni. Tutto il corso fra i villaggi intermedi da Ivrea a Vercelli è stato sempre interrotto dalla folla del popolo accorso a complimentare i buoni vercellesi assolti dal senato e dichiarati fedeli al Re, sinchè giunti a S. Germano, cominciarono ad incontrare altre vetture e cavalli di parenti ed amici accorsi a riceverli e accompagnarli alla patria. Ad una corsa di posta da Vercelli crebbero ancor più questi incontri, e alla distanza d'un miglio ne occupavano tutto il tratto. A questo punto cominciava la sera, la cui oscurità fu dissipata dai fanali avanti inviati espressamente dalla città , nonchè dai fuochi di gioia che i buoni villici accesero a brevi tratti da canto alla strada con secchi fusti di meliga, ed altre materie combustibili della campagna. Qui vi era pronta una banda di musicali strumenti, i quali ripartiti fra le prime vetture in cui si erano divisi gli assolti cittadini, fra gli amplessi dei più cari parenti ed amici li accompagnarono a lenti passi, fra una moltitudine immensa di popolo acclamatore sino alle loro case. Se luminoso fu il chiarore della strada in quest'ultimo tratto in campagna, più brillante d'assai fu quello nella città, la quale in pochi minuti, senza previo invito d'alcuno, alla semplice assicurazione che avvicinavansi gli assolti cittadini, fu tutta questa illuminata a giorno nella lunga contrada del corso che si doveva percorrere da un capo all'altro. » Non è possibile riferire i trasporti di gioia che si ammirarono in questo corso. Il fermar le vetture, slanciarsi dentro esse ad abbracciare gli amici, i tocchi di mano, i saluti, gli evviva si rompevano tra loro con un perpetuo echeggiamento. Le acclamazioni viva la giustizia del Re, viva l'innocenza dei cittadini, viva la fedeltà di Vercelli, erano a vicenda interrotti dalla musica istromentale, e accompagnate da un continuo e confuso mormorio di allegrezza non esprimibile. Nè mancarono brevi fuochi d'artifizio ad accrescere questa festa. Tutto ciò è gran cosa, eppure non è il più rimarchevole in tanta celerità. Quattro mila e più persone d'ogni età, d'ogni sesso, d'ogni ceto (fuorchè il patrizio) nella massima effervescenza dell'entusiasmo in tempo di notte, dopo una calunnia di sedizione universale, si sono diportate con decenza e con ordine, non già per contegno di soldatesche armate, ma per intima e antica persuasione di loro dovere. Il Nestore che ci governa da tanti anni e con tanto senno, ben conscio di questa massima dei Vercellesi, accordò volentieri siffatta pompa, e per maggiormente onorarla, deputò la pattuglia di tre soli soldati, i quali, confnsi tra quattro mila e più persone, offrirono agli spiriti ragionatori il più bello spettacolo, e saranno senza dubbio al cuore del Re un dolce oggetto della più tenera compiacenza. » Veramente al Re solo si devono queste dimostrazioni di un giubilo immenso e universale; ma se noi le abbiamo date a privati suoi sudditi, egli è perchè essi erano i solenni rappresentanti di sua giustizia e bontà, onde a lui stesso abbiamo creduto di rendere per loro mezzo i nostri omaggi. Dimentichi ora delle calunnie dei nostri fratelli maggiori, perdoniam loro ben volentieri il trascorso, ma se essi ci sono maggiori, ci devono poi anche essere fratelli e non tiranni, come noi dobbiamo essere minori, ma pur fratelli e non schiavi. Questi sono i sensi ed i voti della mostra cittadinanza. Io prego V. E. di umiliare al Re questa lettera, e supplicarlo a degnarsi di accogliere una nostra rappresentanza, nella quale gli faremo toccar con mano i vizi molteplici della nostra amministrazione d'ogni genere, vizi direttamente contrari alla mente di S. M., al disposto delle sue costituzioni, ed alle originarie fondazioni dei rispettivi dipartimenti, tolti i quai vizi, e rimesse le cose nel loro stato originale e legale, saranno tolte le inimicizie e le gare dei due ordini patrizio e cittadinesco, e rimessa la buona armonia della città con vantaggio del popolo, quiete de' particolari, e soddisfazione del Re, che noi ubbidiamo, veneriamo e amiamo al pari di ogni altro suo suddito più antico e fedele.

Ho l'onore di rinnovarmi col più profondo rispetto o Di V. E.

In Vercelli 18 settembre 1790. » Umil. ed ubb. servo Il professor Ranza ».