Estratto da un diario di pellegrinaggio , che narra le vicissitudini di un gruppo di preghiera , che transita nel nostro borgo.

 

 21 Marzo 1965

Sotto la pioggia gelida e sferzante, ci sentiamo ben protetti dalle tute; il vento batte tutto da Nord, sulla nostra sinistra, e i camion ci inzaccherano da destra, nei loro passaggi rasenti e veloci.  Si fanno sentire anche le vescichette ai piedi; non abbiamo curato troppo il tipo delle calzature, né il loro rodaggio.  Dopo un poco, la pioggia si tramuta in grandine, ed il vento viene a raffiche violente. La grandine, piccolissima e fitta, batte sulla faccia punzecchiandola e arrossandola. Gli altri notano però che la mia è pallida: infatti sono nuovamente in crisi. Forse è per il fatto che, non avendo mangiato, non riesco a reggere allo sforzo. Gli zaini pesano. Decidiamo che io tenterò l’autostop; sia per le condizioni in cui mi trovo, sia perché, arrivando prima, avrei modo di trovare da alloggiare per tutti. Nutriamo qualche dubbio sulla buona ospitalità di S.Germano. Il Parroco locale, Don G., a cui avevamo scritto in precedenza segnalando il nostro arrivo e pregandolo, ove potesse, di aiutarci a trovare qualcosa per cena ed un giaciglio per la notte, aveva risposto che non poteva fare nulla, e che non insistessimo.  Non mi riesce l’autostop; nessuno si ferma, ed io ritorno sulla sinistra della strada con gli altri. Poi, io e Carmen perdiamo terreno. La sofferenza è indicibile: prego, e riprendo a gemere, mentre Carmen cerca di rincuorarmi, benché pure lui sia entrato in crisi. Generoso com’è, aspettavo già da un po’ che chiedesse di portare il mio zaino. Il giorno dopo mi confesserà che voleva farlo, ma non aveva osato: perché se io avessi accettato, non ce l’avrebbe fatta.  L’acqua ha passato anche le tute gommate, figuriamoci il fustagno dei pantaloni di Carmen. E’ già buio da un po’, e la strada sembra proprio interminabile. Mi viene spesso in mente il confortevole tepore della mia casa e della mia famiglia, che ho lasciato da poco più di un giorno e che, tornando indietro in macchina, potrei ancora raggiungere in meno di un’ora. In questo difficile momento, anche i ragazzi sono certamente tentati dallo stesso pensiero, che si presenta davanti a noi come un miraggio concreto ed è lì, a portata di mano, pronto a risolvere subito ogni nostro affanno e sofferenza. Basta fermare una delle macchine che ci vengono incontro quasi invitanti; oppure telefonare a casa; e si precipiterebbero a prenderci. Ci consolerebbero; potrebbero perfino considerarci degli eroi, perché non sarebbe loro difficile vedere quanto abbiamo già saputo resistere. In contrapposizione, abbiamo di fronte la prospettiva della dubbia buona ospitalità di S. Germano. Malgrado ciò, le nostre gambe continuano a portarci verso S.Germano. È vero che il nostro incedere è ora diventato più un trascinarsi che un camminare, ma si va avanti. Siamo ormai giunti al limite di ogni nostra capacità di resistenza fisica, quando scorgiamo in lontananza delle luci.  Ancora poche centinaia di metri, che sono lunghissimi, poi finalmente arriviamo in paese. Chiediamo della Casa Parrocchiale, come nostra abitudine, non fosse altro che per avvisare del nostro arrivo, ed anche per dare eventualmente modo a Don G. di ravvedersi sul contenuto della sua lettera, in verità poco gentile e poco caritatevole.  La donna, cui ci rivolgiamo per l’informazione, ci guarda come se venissimo da un altro mondo. Dal luogo in cui siamo, occorre spostarci ancora per circa 200 metri, ed è buio pesto. Quando ci accingiamo a muoverci per riprendere il cammino dopo la breve fermata, le nostre gambe non rispondono più.  È bastato quel momento di sosta, per bloccarci le articolazioni ed irrigidirci i muscoli che sono diventati fasci doloranti. Aiutandoci l’un l’altro; e appoggiandoci al muro del porticato dove ci troviamo, riusciamo pian piano a muoverci, ma a piccoli passi, a gambe larghe, e con le ginocchia bloccate.  Tutti indistintamente tremiamo, e i metri sembrano cento volte più lunghi. Abbiamo certamente la febbre, oltre ad essere inzuppati da capo a piedi. In queste condizioni, bussiamo alla porta della Canonica.  Viene ad aprire un’anziana signora, che rimane visibilmente sorpresa delle nostre figure. Ci presentiamo, e lei ci fà cenno di attendere fuori, mentre avverte il Parroco. Dopo un po’ riapre la porta, e sentiamo una voce provenire dall’interno: «Venga avanti solo il capo!». Entro, ma faccio in modo che i ragazzi stiano nell’ingresso, al riparo dalla pioggia sempre scrosciante. Da qui, attraverso una porta aperta, si vede una stanza con una grande tavola ancora imbandita, alla quale siedono due sacerdoti: Il Parroco, ed un altro sacerdote più giovane.  Entro da solo; spiego chi siamo e come siamo arrivati.  Il Parroco mi risponde: “Ma non avete ricevuto la mia lettera?”. Sono amareggiato, ma trovo la forza di aggiungere: “Sì, l’abbiamo ricevuta, ma siamo venuti egualmente per avvertirla del nostro arrivo, ed eventualmente per dare chiarimenti sul nostro operato in campo antiblasfemo”. Mi risponde: “Allora andate pure”. Sono sbalordito; e con me anche i ragazzi che seguono attoniti la scena, dal corridoio. L’altro sacerdote rimane silenzioso; per la verità sembra anche lui molto imbarazzato. Comunque, saluto, e mi avvio per uscire. Senonché , mi volgo nuovamente e chiedo: «Scusino, ma loro sono Sacerdoti della Religione Cristiana?». “Sì”, mi risponde solennemente e con voce alta il Parroco, sempre rimanendo seduto. “Siamo Sacerdoti della Religione Cristiana e Cattolica”. Al che io rispondo: “Scusi, ma credevo di essermi sbagliato”. A questo punto, Carmen vuole intervenire; io lo invito ad uscire, ma lui insiste con calma e con fermezza, e dice: “Senta Reverendo, è sicuro di non doversi un giorno pentire di come ci sta trattando?”. Sempre seduto, il Parroco risponde gridando:“Fuori di qui!“. Usciamo desolati. Fuori, la pioggia sembra ancora aumentata di intensità.  Decido di entrare nel primo locale che troviamo. È una specie di trattoria-locanda;chiediamo un punch caldo, e qualche cliente ci fa posto vicino alla stufa. Più che del mangiare, ci preoccupiamo di poterci scaldare, cambiare e trovare da dormire. Questo, perché domani dobbiamo ad ogni costo essere in grado di proseguire.  Qui, per dormire, non hanno che due posti, ma sanno di un’altra locanda che forse ci può ospitare tutti, e qualcuno si offre di accompagnarci. Dido si mette subito a letto, senza mangiare; lui, che a tavola non ha mai fatto complimenti. A questo punto, i particolari sarebbero anche molti da raccontare. Cito solo quello del primo gradino, che dobbiamo fare per raggiungere le camere. È un gradino leggermente più alto del normale, ma la fatica che ognuno di noi fa per sollevare la gamba di quel tanto, è davvero qualcosa di incredibile. Carmen e Giovanni, si coricano nel letto matrimoniale ad essi assegnato, e si accartocciano tra di loro, per potersi scaldare a vicenda. Pur avendo il pigiama bagnato, Dido lo ha indossato ugualmente perché è abituato così e non riesce a dormire senza; ma non si lamenta. Per fortuna si addormenta subito.  Io devo ancora completare sul diario gli appunti della giornata; oggi purtroppo ne ho parecchi, ma non mi sento di farlo in camera, per via del freddo. Perciò ridiscendo nella saletta, vicino alla stufa, anche se poi, per risalire in camera, dovrò riaffrontare il famoso gradino.  Tutto sommato: tappa da tragedia. Unica nota in favore: aiutati dai nostri bigliettini e da relative spiegazioni, i nostri “interventi” sembra raggiungano notevole effetto. Ci rendiamo conto, però, che sono come poche gocce d’acqua in un terreno riarso.