RICORDI DI UN SANGERMANESE

 GIOVANNI BONISOLI

Giovanni Bonisoli, 72 anni, è figlio di una mondariso e di un capogruppo mondine. Da ragazzino abitava a San Germano Vercellese e i suoi ricordi sono vividi. “Mio padre Eugenio organizzava i gruppi composti da una ventina di mondine ciascuno. In una giornata si mondavano circa 3.800 netri quadrati di terreno”. Alle cinque del mattino iniziava la giornata lavorativa, poi c’erano dieci minuti di pausa intorno alle nove e mezz’ora scarsa per pranzare. Il resto era tutto uno strappare erbacce, immergersi a piedi nudi in acqua e fango, con un sacchetto di plastica avvolto intorno alla pancia per proteggersi dalla rugiada delle prime ore. “Mi ricordo ancora l’arrivo delle mondine forestiere. Scendevano dal treno e raggiungevano i campi a piedi. Le residenti come mia mamma, invece, ci andavano in bici”. Gli anni Cinquanta furono i più produttivi. L’impiego del personale avveniva tra la primavera e l’estate. Si parla di numeri altissimi. Nelle province di Vercelli, Novara e Pavia arrivavano giovani donne provenienti anche da altre parti d’Italia, in particolare dall’Emilia Romagna. Le residenti venivano pagate a cottimo; alle forestiere invece venivano date mille lire e un pacco di riso. Dormivano tutte insieme nei cameroni messi a disposizione dai proprietari di cascine del circondario; un’immagine che ricorda il servizio di leva dei soldati. Si lavavano dietro la cascina in grandi vasche e la sera tornavano a casa con la stanchezza addosso, ma con ancora la voglia di stare insieme, a ballare negli stanzoni e fare un po’ festa. “Dalle nostre parti c’erano la Tenuta Petiva e il Castello di Vettignè. Questi erano i più grandi: ciascuno era capiente abbastanza da ospitare circa seicento mondine”, continua Giovanni. “Me le ricordo tornare alla sera, ancora vivaci nonostante la fatica. Chi aveva più disponibilità economica andava nei bar del paese, pagava la cena e faceva suonare il juke-box. Erano provate dalla fatica, ma le loro ultime energie le sapevano sfruttare bene. Cantavano a squarciagola le canzoni del momento e ballavano nelle cascine. Erano gli anni Sessanta, la guerra era finita da quindici anni, e s’imparava pian piano il divertimento”.Giovanni Bonisoli sarebbe potuto essere uno dei ragazzini della storica foto del 1906 del fotografo (Andre Tarchetti), soltanto una cinquantina di anni dopo. A suoi dieci anni andava su e giù per i rialzi di terreno (le corde) che separavano le risaie, con grandi secchi d’acqua per dar da bere a sua mamma e alle altre mondine. “Dietro alla nostra cascina avevamo delle vasche con un paio di carpe che pesavano un chilo ciascuna. Da queste ricavavamo le uova che avremmo poi lasciato crescere nella risaia, in aprile, quando ancora non c’erano le piantine di riso. Dopo qualche mese le raccoglievamo tutte con un secchio. I più piccoli venivano portati a ripopolare i laghi, mentre quelle che erano già cresciute le vendevamo oppure le mangiavamo. Perché non usare l’acqua delle risaie per altri scopi? Sfruttare il potenziale agricolo ci veniva naturale”.

VIVIANA VICARIO

http://www.piemontemese.it/2015/09/01/sebben-che-siamo-donne-di-viviana-vicario/