San Germano e Brandalucioni

 

Il Piemonte fu invaso dalle armate napoleoniche nel 1796. Tre anni dopo, Austria e Russia, approfittando dell'assenza di Napoleone dall'Europa, si coalizzarono contro di lui. Quando le truppe della coalizione austro-russa scesero nell'Italia settentrionale (1799), la popolazione delle campagne piemontesi li accolse come liberatori. Il comandante delle colonne dirette in Piemonte era Branda de Lucioni, maggiore austriaco (di origine lombarda). Vedendo che la popolazione era insorta contro gli occupanti francesi, prese il comando delle operazioni, autodefinendosi "comandante dell'ordinata massa cristiana", emanando proclami e costituendo di fatto un esercito personale (i "brandalucioni", come furono chiamati).

Oltre a quella di Branda, altre masse cristiane si formarono a Novara, Biella, Ivrea, Santhià e Chivasso. Il 25 maggio 1799 Branda e i suoi sconfissero i repubblicano-giacobini a Torino e occuparono il capoluogo. Non pago, Branda inseguì i francesi in ritirata. Successivamente emanò proclami per ottenere il sostegno delle popolazioni del cuneese. Ma questo esercito personale non fu gradito ai capi dell'esercito regolare, e il 16 giugno Branda Lucioni viene destituito e la Massa cristiana invitata a sciogliersi.

Nel 1800, con il ritorno al potere dei francesi, i protagonisti del moto insurrezionale vennero duramente colpiti. Vittime della repressione furono molte delle 423 persone ghigliottinate a Torino in Piazza Carlina in quegli anni.

Branda de Lucioni, detto Brandaluccioni o Brandalucioni (Winterberg, 1740 – Vicenza, 23 agosto 1803), è stato un militare italiano in forza all'esercito austriaco; fu a capo degli insorti nell'insorgenza anti-napoleonica degli anni 1796-1799 in Piemonte.

Figlio secondogenito di Giuseppe Lucioni, tenente dell'esercito austriaco originario di Abbiate Guazzone, e di Francesca Uslenghi, originaria di Castiglione Olona, fu educato dallo zio paterno Pietro Lucioni, parroco di Limido Comasco. Si arruolò diciassettenne nell'esercito austriaco. Nel 1773 sposò a Gallarate Maria Teresa Landriani, figlia del conte Pietro Paolo e nipote di Marsilio Landriani.

Ex ufficiale dell'esercito austriaco e prigioniero dei francesi nel 1796, fu condannato a morte e poi graziato. In occasione della campagna austro-russa del 1799 nel Nord Italia, Branda de' Lucioni si mise al comando delle colonne dirette in Piemonte. Vedendo che la popolazione era insorta contro gli occupanti francesi, prese il comando delle operazioni. Si autodefinì "comandante dell'ordinata Massa cristiana", emanò proclami e costituì di fatto un esercito personale (i "brandalucioni", come furono chiamati).

Il di Sardegna Carlo Emanuele IV (1751-1819), esortando a creare reparti di volontari, secondo lo sche­ma consueto della «leva a massa» tipico delle tattiche di guerra dell’Antico Regime. Le comunità rispondono generosamente, inviando ed equipaggiando i giovani che hanno esperienza d’armi. Nasce così un esercito semiregolare, la Ordinata Massa Cristiana, inquadrata e addestrata da Lucioni e dai suoi ussari. La Massa dilaga in gran parte del Piemonte, ingrossando sempre di più le sue fila, arrivando in poco tempo a contare — nonostante la ferma temporanea e la disciplina relativa — dai sei ai diecimila uomini.

E’ solo l’inizio di una incredibile avventura. Branda raccoglie i suoi cavalieri e, assieme a un numero crescente di volontari padani (che assumeranno il nome di Massa Cristiana), si dirige su Cuggiono e Boffalora. Il 29 aprile passa il Ticino e solleva i contadini. In pochi giorni libera Novara, Vercelli , San Germano e Santhia. Qui la massa si divide in più colonne. Una si dirige su Biella e poi su Ivrea e Aosta, che viene liberata nella notte fra il 6 e 7 maggio 1799 dall’assalto congiunto della Massa e del locale “Regiment des soques”, formatosi a Champorcher. Un’altra va verso Trino e Chivasso e punta su Torino. Un’altra ancora prende Cigliano-Sciàn, Settimo-Sétu, Rivoli, Pianezza e Grugliasco-Gruyàsk. Il 5 maggio Branda installa il suo quartiere generale a Chivasso-Civàs.

Nei pressi di Torino: Lucioni e i suoi effettuarono continue sortite, provocando i francesi che occupavano la Cittadella. Pasquale Fiorella, il comandante della piazza, sembrò non curarsi della Massa di Lucioni: tentò di tranquillizzare la popolazione con diversi proclami, definendo in maniera sprezzante Lucioni e gli insorti come semplici briganti[1].

Lucioni riuscì a tenere sotto scacco i francesi, ponendo di fatto l'assedio a Torino fino all'arrivo degli austro-russi comandati da Suvorov. Una volta conquistata la città e cacciati i francesi, tuttavia, Lucioni venne scaricato dagli stessi alleati, che obbligarono i "brandalucioni" al disarmo. Branda de' Lucioni, insieme alle ultime sue forze, si diresse verso le montagne, inseguendo le ultime forze francesi. Dopo questi ultimi episodi, le sue tracce si perdono.

DALLA CRONACA DEL TEMPO

Rotto l'esercito francese dall'austriaco in campale giornata sotto le mura di Verona, sgomberò pressochè tutta l'Italia, lasciando nondimeno numerosi presidi nelle principali fortezze di quella. Ciò vedendo Brandalucioni capo degli insorti, innondò colle sue torme armate tutto il paese che è tra Torino e Milano, e commise incredibili eccessi, poichè abbandonò al saccheggio ed alla rapina Chivasso, Cigliano e S. Germano con molte altre terre e villaggi. Vercelli fu prossimo a far tristo esperimento della ferocia di quegli avventurieri, imperciocchè, partitesi da esso le poche soldatesche straniere che v'erano a guardia, come prima ebbero sentore dello avvicinarsi degli Austrorussi capitanati da Suwarow, ogni cosa era quivi piena di confusione, e cominciava intanto un interregno che appresentavasi funesto agli occhi di tutti, e del quale non iscorgevasi sgraziatamente il termine, sparsa essendosi la voce che i Tedeschi non sarebbero iti a Torino, ma avrebbero volto il cammin loro verso la Liguria per combattere i resti del già si debole ed affievolito esercito di Francia, che instava ancora valorosamente sui più alti gioghi dell'Apennino e della Bocchetta in ispecie. Il che quando fosse avvenuto, miuno è che non vegga quanto avrebbero dovuto soffrire dalle bande di Brandalucioni i Vercellesi e gli abitanti delle città e borgate poste infra la capitale del Piemonte e quella della lombardia, dovendo elleno rimanere perciò alla discrezione di quel capo, dal quale non avevasi ad isperare buon trattamento di sorta. Era la città spoglia affatto di gendarmi, di polizia e di pubbliche guardie: al che se si voglia aggiungere che già molti dell'infima plebe tumultuavano e mantenevano segrete corrispondenze al di fuori con molti degli accostantisi banditi, si potrà agevolmente immaginare quale esser dovesse il terrore e lo spavento dei pacifici ed inermi cittadini vercellesi. Di nientemeno omai si trattava che di saccheggiare il ghetto degli ebrei e le case de' più opulenti nobili e borghesi, e di appiccare loro poscia il fuoco. Potevano bene alcuni zelanti e mansueti religiosi esortare a loro posta a serbar il buon ordine e la quiete, chè la plebe è sempre plebe da per tutto. In tale frangente, visto che il tardare arrecava pe ricolo, convocavasi frettolosa una adunanza de più notabili ed autorevoli cittadini per rimediare in quel modo si potesse migliore alla sovrastante tempesta, perocchè già era giunta la nuova dal borgo di Tronzano correre Brandalucioni di filato per rendersi padrone della città, e seguitarlo da circa duemila facinorosi. - A siffatta nuova costituivasi unanime l'adunanza in municipio provvisorio con illimitati poteri, sinchè non fosse Vercelli occupato da alcun corpo regolare d'esercito, e chiamava sindaco il cavaliere Avogadro di Casanova, uomo di specchiata virtù e d'integerrimi costumi. Statuiva poscia ogni contrada o rione avesse un capo, il cui officio fosse quello di procurare non venisse turbata la quiete, ed in caso di riotta si mettesse alla testa degli uomini atti a portare le armi; descriveva tre o quattro compagnie di guardie di pubblica sicurezza, una delle quali composta d'ebrei dovesse stanziare nel ghetto per preservarlo da ogni sinistro tentativo del sediziosi ; poneva un corpo di guardia alla torre detta di città acciò nessuno potesse suonare a stormo, e faceva percorrere tutte le vie da numerose pattuglie per contenere in freno chi meditasse turbolenze. A cotesti provvedimenti andò debitrice la città della sua salvezza, poichè la mattina del giorno tre di maggio di quell'infelice anno 1799 passò per Vercelli il capobanda co' suoi informi masnadieri, nè ardì far motivo di sorta allorchè, a sua gran maraviglia e confusione, scorse attelate in bella ordinanza lungo le vie le guardie cittadine pronte a riceverlo coi loro archibusi, di cui difettavano i suoi seguaci, armati la maggior parte di forche, pali, pistolaccie, tromboni e coltelli: il perchè, fatto senno, senza più indugiare lasciò Vercelli, alla volta di Milano incamminandosi. Tuttavolta, tanto la fama esagerava delle male opere del Branda e delle sue orde, che le case tutte si rimasero chiuse per quel giorno, nè fuvvi chi pure ardisse metter fuori il capo dalle finestre, se eccettuar si vogliano alcuni perduti uomini del volgo che tratto tratto schiamazzavano e nomavano giacobine le guardie, perchè queste erano loro uno stecco agli occhi. Nel passare il Branda per Novara, la stessa accoglienza gli venne fatta che a Vercelli, essendo colà governatore il generale Alcaini, uomo severo e amico dell'ordine, e presidiando il castello i due reggimenti svizzeri di Bakmann e di PeyerIm-Off, devoti ed affezionati a tutte prove alla real casa di Savoia. Infuriato perciò e desioso di vendicarsi sui Milanesi che in non minor confusione versavano, corse a gran passi alla loro città mentre vi giugnevano, ma da diverso cammino, i due generalissimi Melas e Suwarow coi loro vincitori eserciti austriaco e russo. Tosto andava ad offerirsi ai generali austriaci quale cooperatore ai loro disegni, e prometteva loro mari emonti. Ma avvisando essi benissimo, da quegli uomini accorti e diritti che erano, di quanto nocumento le incomposte masse Brandesche fossero per riuscire in una guerra nella quale abbisognava tenersi amici i popoli, cui certamente sarebbero le medesime riuscite esose ed insoffribili, con brusca ciera le rifiutavano ed imponevangli di scioglierle tostamente se non voleva esser fatto passar per le armi. Ad un sì brutto complimento lasciava Branda la capitale Lombarda, e ritornato per altre strade in Piemonte, riducevasi colla sua banda a Chivasso, donde, come da sicuro nido, stava attendendo gli eventi. Ma intanto un secondo pericolo minacciava nuovamente Vercelli. Fuggitivi i Francesi da Magnano e da Verona, eransi, come dicemmo, riparati alle principali fortezze italiane aspettando che Macdonald, il quale con poderoso esercito si appressava a gran giornate dalla Toscana al Piemonte, potesse congiungersi con Moreau comandante di altre schiere, il che avrebbeli resi più forti degli alleati. Ma i due duci supremi di questi ultimi, non prima ebbero recato in lor potere Milano, ordinarono al generale Wukassowik di correre celeremente con buona mano d'armati sopra Torino, e di tutto mettere in opera per insignorirsi della cittadella, dalla quale il generale Fiorella che vi comandava una legione franco-italica poteva con ispessi tiri insultar la città, e costringerla a tenerne chiuse le porte a chiunque volesse entrarvi. Già mettevasi in cammino l'illirico capitano, ed aveva di poco oltrepassato Novara, quando quattro o cinque centinaia di bordaglia dei dintorni, unite a parecchi dei più famigerati seguitatori del Branda proruppero a violenze in Vercelli, e poco stette non venissero a capo di quanto avevano tentato di far poco prima, vale a dire di disertare la città. Fortunatamente però la guardia di sicurezza non aveva peranco deposto le armi, e continuava a starsene a suoi posti, pronta a correre là dove il bisogno di opporsi ai ribaldi la domandasse. La mattina adunque del giorno sette di maggio assembratisi costoro, e portando tutti grossolane zappe e randelli, ivano per le vie della città mettendo ispaventevoli grida, e minacciando terribilmente coloro che erano in voce di essere propensi alle cose nuove, o ricchi e benestanti borghesi. Gridavano: Muoiano i giacobini! muoiano le birbe! abbasso i Francesi ! – Quindi ingrossando ognor più di numero e d'ardire, traevano al ghetto, nel quale, come nella piazza maggiore, era piantato il così detto albero della libertà; e ferocemente urlando dicevano: E ben giusto, o canaglia d'ebrei, che dopo aver voi impoverito Vercelli le centinaia di volte, ora ce ne ristoriamo con una buona mano di sacco. Abbasso quell'albero maledetto ! Ma erano parole, perocchè l'ufficiale che difendeva il luogo con una compagnia d'ottant'uomini, fattosi innanzi, così arringò quella gente bestiale: « Se volete atterrare l'albero della libertà e condurvelo via, ve lo permettiamo; ma se farete alcuna benchè piccola dimostrazione di voler venire a contesa, noi farem fuoco e vi manderemo a casa del diavolo. » Alla rigida eloquenza del parlatore presesi la ciurmaglia la via infra le gambe, e poche ore dopo ritornò, ma recise soltanto l'albero della libertà, cui bruciò in piazza insieme coll'altro che già vi era, facendo gran baldoria. Alcune ore dopo giungeva in città Wukassovik con un grosso di settemila Croati avviantesi a Torino, e lasciava in Vercelli, a richiesta del municipio, seicento uomini per tenere in rispetto i tumultuanti ed alleviare eziandio il peso alle guardie cittadine, la cui opera in tanto critici momenti era riuscita egregia. Alla domane poi, cagione di sorpresa e di terrore offerivasi ai Vercellesi che vedevano corse le italiane terre dai nepoti di que' Sarmati che tredici secoli avanti avevano desolato ed imbarbarito il bel paese, e venivano ora dal ghiacciato polo a predicare la civiltà, la religione ed il buon costume ai figliuoli d'Ausonia. Erano da settantamila tra Russi e Tedeschi, non compresi i corpi irregolari di Cosacchi, Baschiri, Calmucchi, Ucrani, Panduri, Morlacchi e Rasciani, che dove passavano volevano quel che volevano, e mettevano per la peggiore chi loro osava contrastare. Gli occhi di tutti affisavansi specialmente sul vecchio Suwarow e sul granduca Costantino, giovinetto che in età non maggiore di sedici anni abbandonava la imperiale sede e gli agi di Pietroburgo per venire a corre palme guerriere sui campi italiani. La lingua, gli abiti, le armi ed i canti marziali di quelle barbare schiere inducevano nell'universale del volgo la comune credenza che fossero invincibili; e tanto spavento incutevano i belligeri Cosacchi dai nasi camusi e dalle lunghe aste, che tenevasi per fermo dalla credula plebe, si mangiassero eglino così per sollazzo i fanciulli, e fossero impenetrabili alle palle de moschetti. Vedevansi le loro donne coraggiosissime marciare anch'esse a cavallo armate come i mariti, e maneggiare con pari destrezza la lancia, il pugnale e la pistola: dicevasi fossero le favolose Amazzoni. Una di esse, galoppando pel corso di porta Torino, vide un buon contadino che teneva un pollo in un canestro scoperto: prender di mira il povero uccello, infilzarlo coll'asta, ed involarsi rapidamente allo sguardo degli stupefatti riguardanti, fu tutt'uno. Per buona ventura però del Piemonte e della vessata Italia non soggiornarono gran tempo in queste tribolate regioni quegli ospiti settentrionali, essendo poco dopo passati in Elvezia . Questo Branda con le sue masse, quando arrivava in una terra, prima cosa, atterrava l'albero della libertà, e piantava in suo luogo una croce: quivi poscia s'inginocchiava e stava un pezzo orando. Poi trovava il paroco, e si confessava e comunicava. Nè dimenticava la cura del corpo; perchè si dava al desinare, ed usava anche del vino immoderatamente: la massa cristiana vedeva spesso andar a onde il buon uomo. Nè gli importava che due più che una volta le medesime cose nello stesso giorno facesse; perchè quanti villaggi visitava , tante le ripeteva. S'informava se nella terra fossero giacobini, ed avveniva che i giacobini erano sempre i più ricchi: erano messi o a taglia o a ruba. Chi non pagava, predato o carcerato; ma il pagar la taglia, mezzo sicuro di riscatto. Due cappuccini aveva per segretarj: preti, curati e frati l'accompagnavano con forche, picche, pistole e crocifissi. Frati erano d'ogni sorta e di ogni colore, ed armati in varie strane guise: un curato, accinto di pistole assai ben grosse, custodiva il passo della Stura. I villani, seguitando, facevano gesti e schiamazzi, parte ridicoli, parte tremendi. Il terrore dominava il Canavese. Non solo chi aveva opinione contraria, ma chi aveva o lite o interesse contrario con alcuno di quest'uomini fanatici era chiamato a strazi, a prigionia ed a morte. Nè preservava l'età, o la virtù, o l'innocenza; tutti erano da un incomposto furore lacerati. Sonsi vedute donne tratte, per opinioni o vere o supposte, alle ingiurie estreme da uomini scelleratissimi; sonsi veduti magistrati rispettabili legati con corde e svillaneggiati con ogni obbrobrio da uomini facinorosi che avevano anticamente e sotto il governo regio chiamati a giustizia per commessi delitti; sonsi veduti vecchi infermi, o scempiati da queste masse furibonde, o fuggenti con istento la cieca rabbia che gli perseguitava.