Terra di risaie e.... malaria

Pur non sapendo che fossero le zanzare a trasmetterla, da secoli si era messa in connessione la malaria con le acque stagnanti dove oggi sappiamo avere i siti di sviluppo le larve di anofele, ma un tempo si pensava che aleggiassero le "male arie" responsabili del morbo. E in Piemonte le principali distese di acqua stagnante o poco corrente sono da quasi un millennio le risaie… Già nel 1583 furono emanate leggi che proibivano la concessione di acqua per questa coltura e si dava la possibilità di coltivare il riso solo “per le valli et altri luochi sottoposti alle acque, stimati impossibili di asciugarli in tutto et di rendersi ad alcuna cultura”. L'anno seguente un gruppo di medici di Novara, interpellati dalle autorità, spiegava che occorreva muovere le acque, farle defluire, affinché la malaria colpisse meno. Nel 1593 e nel 1598 il conestabile governatore di Milano, da cui Novara allora dipendeva, emanò due Gride che stabilivano le distanze minime delle risaie dai centri abitati. Nel Ducato di Savoia, editti del 1607, 1608, 1622, 1656, 1660, 1663, 1669, 1693 e 1697 non fecero che confermare disposizioni per la salvaguardia dall’insalubrità dell’aria arrecata dai terreni seminati a riso a causa delle loro acque stagnanti e corrotte, in particolare nel Vercellese. Nel 1728, Vittorio Amedeo II, divenuto re di Sardegna, sotto il cui regno confluì anche Novara, emanò un nuovo editto che prevedeva la drastica riduzione delle risaie, elencando gli unici luoghi in cui esse erano permesse e stabiliva gravi pene per chi avesse contravvenuto a tali norme. L’anno successivo, lo stesso re emanò un nuovo editto che proibiva la semina del riso nei territori di Massazza, Salussola, Nobione, S. Damiano Carpanetto, Santhià, Labuzano, Bianzè, Livorno, Lamporo, S. Germano e nei fondi di alcune cascine, nonché benefici a coloro che andassero a ripopolare tali zone decimate proprio dalla malaria. Con le Regie Patenti del 1792, venne quindi indistintamente proibita l’introduzione di nuove risaie nelle province di Novara, Vigevano, Lomellina, Vercelli e Biella. Quando il Piemonte confluì nell'Impero napoleonico, i decreti vicereali del 1809 e 1812 furono più permissivi e ristabilirono nuove distanze che risaie, prati irrigui e marcite dovevano tenere dalla capitale, dai comuni di prima, seconda e terza classe, nonché dalle piazzeforti, lasciando ai prefetti dei dipartimenti la facoltà di concedere l’autorizzazione per la creazione di nuove risaie fuori dai limiti descritti. Con la restaurazione del regime sabaudo, nel 1814 Vittorio Emanuele I ripristinava (ovviamente!) le antiche leggi, nella fattispecie quella del 1792. Lo stesso re constatava poi però l’obsoletezza di tali norme e l’anno successivo stabiliva con nuove Regie Patenti una Delegazione che provvedesse a valutare le domande degli interessati nella continuazione della coltura a riso nei tenimenti in cui essa sarebbe stata vietata e ne dettava le linee guida. Tale Delegazione fu poi soppressa nell’aprile 1835 da re Carlo Alberto e sostituita con un Magistrato di Sanità, residente in Torino. Egli riconobbe ben presto che molto si doveva ancora fare per sistemare la risicoltura piemontese e che perciò era necessaria una seria riforma. Per cui nell’agosto dello stesso anno fu mandato alle amministrazioni comunali quello che oggi chiameremmo un questionario, per poter censire le risaie ed i loro supposti danni sanitari ed infrastrutturali. Nel 1850, regnante Vittorio Emanuele II, su proposta del ministro dell’Interno fu finalmente nominata una speciale Commissione con l’incarico di studiare e preparare un progetto generale di riforma della legislazione inerente la risicoltura dello stato subalpino, onde poter conciliare gli interessi dei produttori con quelli della pubblica igiene. Tale commissione analizzò una notevole mole di dati, demografici, agronomici, territoriali, igienico-sanitari, epidemiologici ecc. In conseguenza di questo lavoro furono emanati due decreti nel 1851 e due circolari ministeriali nel 1853 e 1854, che infine sancirono che la risicoltura era permessa solo nelle province di Biella, Casale, Lomellina, Novara, Tortona, Vercelli e Voghera, ma solo sui terreni già coltivati prima del 1850 e alla distanza superiore di metri 3600 dagli abitati con oltre 8000 persone, metri 2400 da quelli con 4001-8000 persone, metri 1200 da quelli con 2001-4000 persone, metri 800 da quelli con 501-2000 persone, metri 200 da quelli con 201-500 persone, metri 100 da quelli con 101-200 persone e metri 50 da quelli con meno di 100 persone. Ma le lamentele non finiscono ed approdano ben presto nei Consigli Comunali di Vercelli ed altre città. La situazione si complica ulteriormente quando, in seguito all’apertura di nuovi cavi irrigui nella pianura casalese (canale Lanza, 1874), la risicoltura compare a sud del Po, portando un'inaspettata epidemia di malaria nel basso Monferrato. Tale questione culminò, dopo dibattimenti parlamentari, con l’approvazione da parte del Consiglio di Stato dell'ormai Regno d'Italia delle conclusioni del Consiglio Superiore di Sanità che portarono il Governo ad approvare la deliberazione emessa dal Consiglio Provinciale di Alessandria per la riforma della coltivazione del riso, con Decreto 6 marzo 1879 che recita: “La coltivazione del riso nell’Agro casalese alla destra del Po e nel Comune di Lazzarone (oggi Villabella, frazione di Valenza) è vietata. Qualora l’esperienza dimostrasse che la pubblica salute soffra detrimento dall’apertura di una risaia, il Prefetto, sentito il Consiglio sanitario del Circondario cui la risaia appartiene, e la Deputazione provinciale, ordinerà l’abolizione della risaia stessa”. Tale stato di cose perdurò con poche modifiche fino all’emanazione del testo unico delle leggi sanitarie del 1934. Qui alcuni articoli furono dedicati al riso. L’articolo 204 recitava che “la coltivazione del riso è soggetta per ciascuna provincia a un regolamento speciale”. Il regolamento doveva determinare (art. 205) le distanze minime delle risaie dalle case e dai centri abitati, le norme per il deflusso delle acque, le condizioni per accettare la richiesta di un nuovo impianto, la durata e la distribuzione dei periodi di riposo nei lavori inerenti la coltura, le norme per l’assistenza medica e farmaceutica e le condizioni igieniche per le abitazioni dei lavoratori e la loro salute. L’articolo 206 prevedeva che si dovesse far richiesta al Podestà (quindi al Comune) per l’istallazione di nuove risaie. L’articolo successivo assegnava le competenze per le eventuali controversie relative l’attivazione di nuove risaie e l’articolo 208 assegnava al Prefetto la possibilità di vietare la coltivazione di risaie quando queste risultassero nocive alla salute pubblica. Per combattere la malaria nei lavoratori delle risaie era fatto obbligo (art. 211) al proprietario la somministrazione gratuita di chinino, anche in zone non più malarigene. Inoltre (art. 213), tutte le abitazioni dei lavoratori dovevano avere apposite reticelle (zanzariere) alle finestre e prevedere locali particolarmente protetti per l’isolamento provvisorio di lavoratori colpiti da malaria o altra malattia infettiva e diffusiva. Poi, scomparse le grandi migrazioni di lavoratori stagionali, debellata la malaria nelle altre zone del Paese, scomparve il serbatoio umano di plasmodi malarici dal Piemonte e quindi anche la malaria. E ritornarono le risaie anche nell’Agro casalese. [tratto da una ricerca storica a cura di Elena Sassone e Andrea Mosca, pubblicata su “La lotta alle zanzare nelle risaie dell’Italia nord occidentale", Vol. I, pp

Tuttavia, la situazione di generale abbandono di queste zone e la presenza di acque salmastre aveva attribuito alle risaie anche la triste nomea di paesaggi dove prosperava la malaria e, in effetti, numerose epidemie si verificarono verso la fine dell’‘800 Fino a metà ‘800, l’orario di lavoro andava “da un sole all’altro”, quindi dall’alba al tramonto che, in quella stagione, sono molto distanti tra loro. Con il “Regolamento Cantelli” (1869) fu vietato l’accesso alla risaia da un’ora prima del tramonto a un’ora dopo l’alba, per evitare le ore nelle quali le zanzare portatrici di malaria sono più attive.

In San Germano come nel resto del vercellese la malaria era già presente anche nell'antichità , ma l'introduzione della coltura del riso tra il XVI e XVII secolo ha incrementato quella che era una situazione endemica. Le prime informazioni dirette le abbiamo dalle memorie del Cavaliere di Quincy del Luglio 1704 , quando accampato attorno a San Germano con altri militari , si trovarono ad affrontare un epidemia di febbri malariche " noi attribuimmo a causa del malanno , al territorio di risaie in cui ci eravamo accampati , da cui uscivano delle esalazioni che emanavano un gran fetore.".

Il Sangermanese Giuseppe Deabate dedica al lavoro in risaia e alla malaria una sua poesia ;

Su le risaie livide e stagnanti

Flagellate  dal sol , le mondatrici

Col piè nell'acqua e i grandi occhi brucianti

S'incurvano a schiantare dalle radici

Le selvagge e maligne erbe allegnanti

Con le brune mani stanche e sanguinanti mentre

Bieca frattanto dalla terra smossa

Serpeggiante per vie umide e nere

Esce la febbre e penetra nell'ossa.

 

Nell'800 e inizio 900 l'incidenza delle morti di malaria sulla mortalità generale era a San Germano molto significativa , ed è riportata nella seguente tabella.

Colonna 1 - Anno di riferimento

Colonna 2 - Abitanti

Colonna 3 - Nati

Colonna 4 - Morti

Colonna 5 - Morti per malaria

Tabella tratta da :Della influenza delle risaje sulla salute umana - Giovanni Capsoni - 1831
La mortalità nel periodo del XVI secolo ( superiore alle nascite ) era ritenuta in questo studio da imputare all'incidenza della malaria dovuta alle risaie.

Come la precedente tabella , ma riferita ai primi anni del XIX secolo