PINO  FERRARIS

 

( 1933 - 2012 )

 

SOCIOLOGO

 

 

Nato il 22 dicembre 1933 a San Germano Vercellese ( VC ), paese a cui era sempre particolarmente legato e di cui abbiamo un suo vivido ricordo nei suoi racconti ;"Il coltello dell'ingegner Weiss"e "Lettere del soldato". Sociologo e studioso del movimento operaio , ha lavorato nell’Ufficio Studi della Cgil, ha collaborato con l’Flm e la Fiom, ha insegnato sociologia all’Università di Camerino. Negli anni 60 e 70 è stato un protagonista di primo piano a Torino, nei Quaderni Rossi, nel sinistra del partito socialista e poi alla guida del Psiup e del Pdup. Ha sempre pensato e lottato per un socialismo libertario, un’utopia che pensava realizzabile seppure a lungo termine. Per questo ideale ha sempre operato tracciando tappe intermedie, di qui la sua caparbietà perché la trasformazione avvenisse dal basso, dalla società attraverso conquiste culturali e con forme organizzative radicate nel territorio e nelle fabbriche su modelli consiliari. Nella stagione dei Consigli di fabbrica degli anni ’70 sostenne la tesi che gli stessi non dovessero essere confinati alla rappresentanza di base del sindacato ma svolgere la funzione di organismi politici unitari di base. E’ stato un lucido studioso del movimento operaio, amico di Vittorio Foa e di molti altri dirigenti sindacali. Si è occupato di movimento operaio e di mezzogiorno, scrivendo numerosi saggi. E’ stato membro del comitato scientifico della rivista Parole Chiave.

Ha pubblicato, fra l’altro, Domande di oggi al sindacalismo europeo dell’altro ieri, Ediesse, Roma 1992; Osvaldo Gnocchi-Viani, Dieci anni di Camere del lavoro, Ediesse, Roma 1995, Ieri e domani, Storia critica del movimento operaio e socialista ed emancipazione dal presente, Edizioni Dell’Asino, 2011.

E’ morto nella sua abitazione a Roma il 2 febbraio 2012  , è sepolto nel cimitero di San Germano Vercellese.

LE LETTERE DEL SOLDATO


Un pacchetto di lettere custodite in una cassetta di legno e la storia del fratello della nonna, il soldato Giovanni Panattaro, caduto sul Carso a 24 anni, nel 1916. Un racconto di Pino Ferraris.

Pubblichiamo un racconto inedito di Pino Ferraris, ritrovato tra le sue carte.
Cogliamo l’occasione per segnalare il sito http://www.pinoferraris.it/ curato da Valter e Sergio Ferraris e dedicato al padre.


La via è intitolata a Modesto Cugnolio, l’avvocato socialista che poco meno di un secolo fa condusse i braccianti e le mondine del Vercellese alla conquista delle otto ore. Sta proprio davanti al Bar della Stazione, la piccola villa colore rosa violetto. Un tempo ospitava vita di bambini e di nonni tra i roseti e nel giardino sotto i glicini. Quest’ultimo inverno di nebbie e di brina ha chiuso nella casa mia madre completamente sola. Dopo molti abbandoni e molte partenze nel maggio dello scorso anno accanto alla tazza del té la vicina di casa, la Lena, non si svegliò più. Suo marito, il vecchio Carlin, sopravvisse soltanto qualche mese. Con l’entrata nell’inverno tutti ormai se ne erano andati. Nel lunghissimo buio delle giornate invernali mia madre continuava a vivere tra l’inerte deserto della memoria e l’agitazione imprevedibile dei deliri.
Quando venni qui nella prima settimana di febbraio l’Alzheimer stava portando a termine la sua devastazione. Fu allora che, in un pallido e freddo pomeriggio, l’accompagnai per l’ultima volta al camposanto. Nella tomba di famiglia c’è mio padre, ci sono i nonni e la loro figlia primogenita Jolanda, delicata e fragile che non andò a lavorare in risaia. Lavorava alla nuovissima macchina Singer che ci lasciò quando, malata di cuore, morì a 22 anni.
Poco distanti nei colombari ci sono la zia Rita e lo zio Paolo. Sono stati raggiunti due anni fa dal loro unico figlio Franco, un gigante biondo, buono e allegro. È stato stroncato dall’auto di un balordo mentre, la sera, andava a comprare i regali di Natale. Aveva 55 anni. Quasi davanti alla nostra c’è la cappella della famiglia Graziano. Oramai sono tutti qui gli amici e i vicini di ringhiera delle Case Operaie. Il primo a venire fu Tarcisio. Aveva 25 anni nell’aprile del 1945 quando, con la fascia del Cln al braccio e un fucile in mano, andò verso una Divisione di tedeschi in ritirata. Lo trovarono dopo 15 giorni nel canale Cavour trapassato dai proiettili.
Incontriamo la tomba di marmo lucido della famiglia Balocco. Quasi centenaria ha raggiunto i suoi cari anche l’Angiolina, una piccola donna battagliera e vivace che ci raccontava gli scioperi delle mondine per l’orario nel 1906 e gli scontri con la cavalleria.
La vecchia zia Giovannina fu la prima ad essere sepolta in questa tomba di finto marmo dei Vergano. La ricordo immobilizzata sulla carrozzella che leggeva e leggeva. Nelle lunghe serate d’inverno traduceva poi in dialetto e ci raccontava I miserabili e Il bacio di una morta... Luoghi, nomi, fotografie sono muti per mia madre. A bassa voce come vaneggiando mi ripete: "Come fai a sapere tutte queste cose? Io no... io no”.
Quando uscimmo dal cimitero improvvisamente sembrò ritrovare luce e ricordi. Mi sussurrò: "Andiamo a trovare lo zio...”. E fu lei questa volta a guidarmi facendo pressione col braccio per voltare a sinistra verso il Viale della Rimembranza.
Quarantadue tigli grandi ed alti allineati sui due lati di un vialetto inghiaiato. Ai piedi di ciascuno i cippi di granito piccoli e tronchi. Targhe di bronzo appena leggibili indicano il milite caduto nella Prima Guerra Mondiale.
Vacillante ed incerta cerca tra le steli. Nel loro uniforme susseguirsi riesce a trovare quella di Giovanni Panattaro, il fratello di mia nonna caduto sul Carso all’età di ventiquattro anni nel novembre del 1916. Allora mia madre aveva poco più di un anno. Mi colpì e mi turbò la misteriosa e inattesa persistenza di quell’unico filo di memoria. Durante quegli stessi giorni cercavo di proteggere carte e documenti dal suo continuo, maniacale rovistare, spostare, nascondere e distruggere oggetti. Ho salvaguardato documenti di identità, atti notarili, vecchie fotografie, libretti bancari.

Nel corso di queste mie ricerche trovai, dentro una cassetta di legno scuro e lucido, saldamente legato con un robusto nastro bianco, un pacco di vecchie lettere. Lo svolsi. Erano lettere dal fronte inviate negli anni 1915 e 1916 dal soldato Panattaro Giovanni. Ancora quel nome, l’antico dramma familiare e la Grande Guerra.
Ora sono qui davanti a me sul tavolo dello studio i 180 "pezzi” dell’epistolario del soldato Panattaro Giovanni.

Sono lettere inviate ai familiari: al padre e alla sorella, agli zii e al cognato al fronte.
Il primo scritto è datato 17 maggio 1915 e proviene da Biella. Trenta chilometri soltanto dalla sua casa, la cascina Grangia in mezzo alle risaie del Vercellese.
L’ultimo proviene dal Carso, comunica l’"ottima salute” ed è datato 21 novembre 1916: è il giorno in cui il soldato, colpito dall’esplosione di una granata, muore.
Mi attendo che queste tracce stese nelle trincee della prima linea o nelle baracche delle retrovie,
dopo una marcia sulle mulattiere o quando si calma il fuoco delle artiglierie, alla fine di una
giornata di scavo dei camminamenti o dopo la nottata di vedetta, mi raccontino, mi dicano delle sofferenze e degli orrori della guerra. Ma la guerra è insieme presente e rimossa. La sua cronaca filtra debolmente tra le righe. A malapena riesco a ricostruire la biografia di guerra di quel soldato partito da Ivrea verso Verona con il secondo battaglione del Cinquantaquattresimo Reggimento di fanteria il 25 giugno del 1915.
Da Verona si sale nel Trentino lungo l’Adige.
Nell’estate, nell’autunno e nella prima parte dell’inverno il battaglione è a Ronchi di Ala, dove si fa "un lavoro da minatore con la mazza in mano dal mattino alla sera”. Si costruiscono trincee e gallerie, si aprono mulattiere.
Quando si è avanti, nelle prime linee, si trascorre il giorno "rintanati in trincea come i lupi”, soltanto di notte si esce a lavorare.
Si fatica, ma c’è poco pericolo.
Tra dicembre e gennaio sul fronte dell’Isonzo azioni austriache di alleggerimento rivelano il logoramento e la fragilità dello schieramento italiano. Si narra di grosse perdite italiane nei primi giorni del gennaio 1916. I comandi sono costretti a racimolare in fretta e furia truppe dagli altri fronti. Il Cinquantaquattresimo Reggimento di Fanteria lascia il Trentino per l’Isonzo.
Giovanni Panattaro arriva il 17 gennaio sul fianco destro del Monte Nero.
Sono pochi i riferimenti espliciti a questa nuova esperienza sulla linea del combattimento in montagna e nel cuore dell’inverno: "Quando si va in trincea si sta 12 giorni senza uscire. E in trincea si può andare e uscire solo di notte”.
Ma nelle parole scarne ed usuali vibra una inquietudine nuova come se, qui sull’Isonzo, il soldato Panattaro avesse sofferto e sperimentato un trauma, come se ora, avendo visto il volto orribile della guerra, volesse assolutamente guardare da un’altra parte. Ha visto e vissuto per la prima volta il momento dell’assalto, l’uscita allo scoperto verso il macello sotto le granate e di fronte alla mitraglia.
Il 25 marzo torna sul fronte dopo quindici giorni di licenza. Raggiunge a Cividale il suo Reggimento e lo afferra l’angoscia del possibile ritorno sull’Isonzo.
Pochi giorni dopo si sparge la voce che si va nelle retrovie in riposo. Quando lascia il fronte orientale e va in altra zona, nel piccolo comune di Boezzo vicino a Brescia, egli ripete più volte che la fortuna gli cammina insieme perché da Brescia è ovvio e naturale che si salirà alla linea del fronte nel Trentino.
Il 22 aprile, terminato il riposo, il fante raggiunge la trincea sul Tonale nella valle Giudicaria.
La Pasqua sul Tonale non trascorre in pace, ma qui si può ben dire che, rispetto all’Isonzo, si combatte una "guerra moderna e civile”. Il pericolo è moderato e si può fare persino la pulizia personale”.
L’offensiva di maggio degli austriaci nel Trentino, la "spedizione punitiva” di cui parlano i giornali, punta verso gli Altipiani, dal Pasubio ai Sette Comuni, e, comunica a casa il soldato Panattaro, non coinvolge il Tonale dove tutto è calmo e tranquillo.
Otto giorni di trincea e otto giorni di riposo. La fatica del lavoro e delle marce massacranti insieme con le veglie notturne sono i disagi maggiori. Ma il rischio è poco. Il 15 ottobre parte dal Trentino, non sa quale sia la destinazione.
Il 26 ottobre scrive: "Non mi trovo più nel Trentino ma sul Carso. Tra qua e dove eravamo prima c’è molta differenza, ma pazienza, speriamo nella fortuna”.
"Dal primo di questo mese di novembre abbiamo incominciato a salire il Carso proprio dove parlava il giornale, siamo stati otto giorni in prima linea, ora siamo un po’ indietro, sono sano e salvo”.
Le lettere diradano perché si passano "brutti giorni” nei quali non si può scrivere e la posta non parte. Il 14 novembre comunica di essere stato trasferito alla sezione mitragliatrice.
Il 21 novembre il soldato mitragliere Panattaro Giovanni cade colpito al capo da una granata.
Il giovane schiavandaio che sapeva bene impugnare il tridente per dar fieno e mettere fuori letame dalla stalla è morto maneggiando la moderna e micidiale macchina della mitraglia.

Quando suo fratello cadde in guerra la nonna Pinota aveva 26 anni. Aveva due bambine, Jolanda di tre anni e Olga (mia madre) di un anno e mezzo. Era sola. Il marito era al fronte. I suoi parenti erano gente di cascina ed abitavano sparsi nelle campagne del Vercellese.
Lei invece abitava proprio al centro del paese, nelle case Capa.
Dalla grande piazza della Chiesa, via Mentegazza scende per un centinaio di metri. A un certo punto la strada piega a angolo retto verso sinistra per andare alla Casa Parrocchiale. Solo un breve vicolo continua dritto infilandosi sotto un lungo e buio portico quadrato che apre poi in un ampio cortile.
Di fronte si allineavano usci e finestre, sulla destra del cortile c’erano orti, sulla sinistra stalle e fienili, in mezzo la surbia, la pompa idraulica monumentale con l’alta colonna di mattoni rossi dalla quale usciva la lunga maniglia di ferro e la cannella che gettava nella vasca rettangolare di pietra. Mia nonna abitava qui ed era una fortuna che, in quella situazione, la signora Capa non le chiedesse l’affitto. Quando venne la feroce notizia era ormai inverno.
Quel morto senza tomba ritornava in una afflizione senza tregua ed era come colpa non averlo accompagnato e pianto nel funerale di ogni cristiano.
Fu così che ella decise di camminare per chilometri nell’inverno verso le cascine: la Grangia, Mileggio, Toli. Doveva raccogliere dal padre, dagli zii e dai cugini le lettere del fratello come pezzi di una vita. Riunite diventarono riferimento della memoria e del compianto.
Sovente la sera scioglieva il pacco avvolto in un giornale e sfogliava le cartoline postali, le cartoline illustrate e le fotografie dello zio soldato con le bambine sedute accanto che guardavano e chiedevano di raccontare. Mia nonna era donna attiva e silenziosa. Ma era straordinaria la sua capacità di avvolgere e di portare via con le favole.
Le dita che svolgevano una dopo l’altra le lettere e le cartoline si muovevano suscitando e conducendo la maglia di un racconto senza fine che faceva ritornare lo zio Giovanni a giocare, a ridere, a fare scherzi con il papà che ora era lontano in guerra. Che cos’è la guerra?
La nonna non sapeva narrare alle sue bambine che cosa era la guerra ed esse la immaginavano come una strega, come un enorme fantasma nero ondeggiante che copriva e portava via la gente, come il nembo scuro di un temporale che tuona e lampeggia e fa paura..
Ora è il mese di giugno. Mia madre è morta da tre mesi. La casa di San Germano è definitivamente vuota. Sono presso di me le lettere del soldato, il pensiero della nonna Pinota che le raccoglie e le conserva come reliquie, il ricordo di mia madre stremata che cerca il nome dello zio nel Parco della Rimembranza. Avevo poco più di sei anni nel lontano mese di giugno del 1940. Lo ricordo molto bene quel giorno.
La "Monferrina” (questo era il soprannome della proprietaria del Caffè-Ristorante della Stazione) aveva ricevuto l’ordine di esporre sula finestra, verso la strada, l’enorme apparecchio radio e di tenerlo acceso a tutto volume.
Inni patriottici e fascisti, annunci proclamati con voce metallica e risoluta preparavano il discorso del Duce. Sull’altro lato della strada, tra la spalletta di mattoni del ponte sula fontana di Robarello e quella di pietra del ponte sul naviglio della Molinara, si riunivano donne vestite in nero e ragazzi scalzi che uscivano dal grande edificio delle Case Operaie. Gli uomini erano al lavoro nei campi. Ricordo il delirio delle ovazioni e delle invocazioni tra le quali il Duce dalla voce tonante ebbe difficoltà a far emergere la parola fatale: guerra.
Da quella piazza lontana, al centro della nazione, venne un’onda di gioia esultante. Qui invece le donne vestite in nero restarono mute e immobili. Vidi la nonna Pinota che sollevò l’orlo del grembiule per asciugare le lacrime. Così immediatamente e naturalmente in quella periferia estrema popolata di braccianti e di mondine, mi trovai, bambino, dall’altra parte.
13 giugno 2001