Un pacchetto di lettere custodite in una
cassetta di legno e la storia del fratello della nonna, il soldato
Giovanni Panattaro, caduto sul Carso a 24 anni, nel 1916. Un racconto di
Pino Ferraris.
Pubblichiamo un
racconto inedito di Pino Ferraris, ritrovato tra le sue carte.
Cogliamo l’occasione per segnalare il sito
http://www.pinoferraris.it/ curato da Valter e Sergio Ferraris e
dedicato al padre.
La via è intitolata a Modesto Cugnolio,
l’avvocato socialista che poco meno di un secolo fa condusse i
braccianti e le mondine del Vercellese alla conquista delle otto ore.
Sta proprio davanti al Bar della Stazione, la piccola villa colore rosa
violetto. Un tempo ospitava vita di bambini e di nonni tra i roseti e
nel giardino sotto i glicini. Quest’ultimo inverno di nebbie e di brina
ha chiuso nella casa mia madre completamente sola. Dopo molti abbandoni
e molte partenze nel maggio dello scorso anno accanto alla tazza del té
la vicina di casa, la Lena, non si svegliò più. Suo marito, il vecchio
Carlin, sopravvisse soltanto qualche mese. Con l’entrata nell’inverno
tutti ormai se ne erano andati. Nel lunghissimo buio delle giornate
invernali mia madre continuava a vivere tra l’inerte deserto della
memoria e l’agitazione imprevedibile dei deliri.
Quando venni qui nella prima settimana di
febbraio l’Alzheimer stava portando a termine la sua devastazione. Fu
allora che, in un pallido e freddo pomeriggio, l’accompagnai per
l’ultima volta al camposanto. Nella tomba di famiglia c’è mio padre, ci
sono i nonni e la loro figlia primogenita Jolanda, delicata e fragile
che non andò a lavorare in risaia. Lavorava alla nuovissima macchina
Singer che ci lasciò quando, malata di cuore, morì a 22 anni.
Poco distanti nei colombari ci sono la zia Rita
e lo zio Paolo. Sono stati raggiunti due anni fa dal loro unico figlio
Franco, un gigante biondo, buono e allegro. È stato stroncato dall’auto
di un balordo mentre, la sera, andava a comprare i regali di Natale.
Aveva 55 anni. Quasi davanti alla nostra c’è la cappella della famiglia
Graziano. Oramai sono tutti qui gli amici e i vicini di ringhiera delle
Case Operaie. Il primo a venire fu Tarcisio. Aveva 25 anni nell’aprile
del 1945 quando, con la fascia del Cln al braccio e un fucile in mano,
andò verso una Divisione di tedeschi in ritirata. Lo trovarono dopo 15
giorni nel canale Cavour trapassato dai proiettili.
Incontriamo la tomba di marmo lucido della
famiglia Balocco. Quasi centenaria ha raggiunto i suoi cari anche l’Angiolina,
una piccola donna battagliera e vivace che ci raccontava gli scioperi
delle mondine per l’orario nel 1906 e gli scontri con la cavalleria.
La vecchia zia Giovannina fu la prima ad essere
sepolta in questa tomba di finto marmo dei Vergano. La ricordo
immobilizzata sulla carrozzella che leggeva e leggeva. Nelle lunghe
serate d’inverno traduceva poi in dialetto e ci raccontava I miserabili
e Il bacio di una morta... Luoghi, nomi, fotografie sono muti per mia
madre. A bassa voce come vaneggiando mi ripete: "Come fai a sapere tutte
queste cose? Io no... io no”.
Quando uscimmo dal cimitero improvvisamente
sembrò ritrovare luce e ricordi. Mi sussurrò: "Andiamo a trovare lo
zio...”. E fu lei questa volta a guidarmi facendo pressione col braccio
per voltare a sinistra verso il Viale della Rimembranza.
Quarantadue tigli grandi ed alti allineati sui
due lati di un vialetto inghiaiato. Ai piedi di ciascuno i cippi di
granito piccoli e tronchi. Targhe di bronzo appena leggibili indicano il
milite caduto nella Prima Guerra Mondiale.
Vacillante ed incerta cerca tra le steli. Nel
loro uniforme susseguirsi riesce a trovare quella di Giovanni Panattaro,
il fratello di mia nonna caduto sul Carso all’età di ventiquattro anni
nel novembre del 1916. Allora mia madre aveva poco più di un anno. Mi
colpì e mi turbò la misteriosa e inattesa persistenza di quell’unico
filo di memoria. Durante quegli stessi giorni cercavo di proteggere
carte e documenti dal suo continuo, maniacale rovistare, spostare,
nascondere e distruggere oggetti. Ho salvaguardato documenti di
identità, atti notarili, vecchie fotografie, libretti bancari.
Nel corso di queste mie ricerche trovai, dentro
una cassetta di legno scuro e lucido, saldamente legato con un robusto
nastro bianco, un pacco di vecchie lettere. Lo svolsi. Erano lettere dal
fronte inviate negli anni 1915 e 1916 dal soldato Panattaro Giovanni.
Ancora quel nome, l’antico dramma familiare e la Grande Guerra.
Ora sono qui davanti a me sul tavolo dello studio i 180 "pezzi”
dell’epistolario del soldato Panattaro Giovanni.
Sono lettere inviate ai familiari: al padre e
alla sorella, agli zii e al cognato al fronte.
Il primo scritto è datato 17 maggio 1915 e
proviene da Biella. Trenta chilometri soltanto dalla sua casa, la
cascina Grangia in mezzo alle risaie del Vercellese.
L’ultimo proviene dal Carso, comunica l’"ottima
salute” ed è datato 21 novembre 1916: è il giorno in cui il soldato,
colpito dall’esplosione di una granata, muore.
Mi attendo che queste tracce stese nelle
trincee della prima linea o nelle baracche delle retrovie,
dopo una marcia sulle mulattiere o quando si
calma il fuoco delle artiglierie, alla fine di una
giornata di scavo dei camminamenti o dopo la
nottata di vedetta, mi raccontino, mi dicano delle sofferenze e degli
orrori della guerra. Ma la guerra è insieme presente e rimossa. La sua
cronaca filtra debolmente tra le righe. A malapena riesco a ricostruire
la biografia di guerra di quel soldato partito da Ivrea verso Verona con
il secondo battaglione del Cinquantaquattresimo Reggimento di fanteria
il 25 giugno del 1915.
Da Verona si sale nel Trentino lungo l’Adige.
Nell’estate, nell’autunno e nella prima parte
dell’inverno il battaglione è a Ronchi di Ala, dove si fa "un lavoro da
minatore con la mazza in mano dal mattino alla sera”. Si costruiscono
trincee e gallerie, si aprono mulattiere.
Quando si è avanti, nelle prime linee, si
trascorre il giorno "rintanati in trincea come i lupi”, soltanto di
notte si esce a lavorare.
Si fatica, ma c’è poco pericolo.
Tra dicembre e gennaio sul fronte dell’Isonzo
azioni austriache di alleggerimento rivelano il logoramento e la
fragilità dello schieramento italiano. Si narra di grosse perdite
italiane nei primi giorni del gennaio 1916. I comandi sono costretti a
racimolare in fretta e furia truppe dagli altri fronti. Il
Cinquantaquattresimo Reggimento di Fanteria lascia il Trentino per
l’Isonzo.
Giovanni Panattaro arriva il 17 gennaio sul
fianco destro del Monte Nero.
Sono pochi i riferimenti espliciti a questa
nuova esperienza sulla linea del combattimento in montagna e nel cuore
dell’inverno: "Quando si va in trincea si sta 12 giorni senza uscire. E
in trincea si può andare e uscire solo di notte”.
Ma nelle parole scarne ed usuali vibra una
inquietudine nuova come se, qui sull’Isonzo, il soldato Panattaro avesse
sofferto e sperimentato un trauma, come se ora, avendo visto il volto
orribile della guerra, volesse assolutamente guardare da un’altra parte.
Ha visto e vissuto per la prima volta il momento dell’assalto, l’uscita
allo scoperto verso il macello sotto le granate e di fronte alla
mitraglia.
Il 25 marzo torna sul fronte dopo quindici
giorni di licenza. Raggiunge a Cividale il suo Reggimento e lo afferra
l’angoscia del possibile ritorno sull’Isonzo.
Pochi giorni dopo si sparge la voce che si va
nelle retrovie in riposo. Quando lascia il fronte orientale e va in
altra zona, nel piccolo comune di Boezzo vicino a Brescia, egli ripete
più volte che la fortuna gli cammina insieme perché da Brescia è ovvio e
naturale che si salirà alla linea del fronte nel Trentino.
Il 22 aprile, terminato il riposo, il fante
raggiunge la trincea sul Tonale nella valle Giudicaria.
La Pasqua sul Tonale non trascorre in pace, ma
qui si può ben dire che, rispetto all’Isonzo, si combatte una "guerra
moderna e civile”. Il pericolo è moderato e si può fare persino la
pulizia personale”.
L’offensiva di maggio degli austriaci nel
Trentino, la "spedizione punitiva” di cui parlano i giornali, punta
verso gli Altipiani, dal Pasubio ai Sette Comuni, e, comunica a casa il
soldato Panattaro, non coinvolge il Tonale dove tutto è calmo e
tranquillo.
Otto giorni di trincea e otto giorni di riposo.
La fatica del lavoro e delle marce massacranti insieme con le veglie
notturne sono i disagi maggiori. Ma il rischio è poco. Il 15 ottobre
parte dal Trentino, non sa quale sia la destinazione.
Il 26 ottobre scrive: "Non mi trovo più nel
Trentino ma sul Carso. Tra qua e dove eravamo prima c’è molta
differenza, ma pazienza, speriamo nella fortuna”.
"Dal primo di questo mese di novembre abbiamo
incominciato a salire il Carso proprio dove parlava il giornale, siamo
stati otto giorni in prima linea, ora siamo un po’ indietro, sono sano e
salvo”.
Le lettere diradano perché si passano "brutti
giorni” nei quali non si può scrivere e la posta non parte. Il 14
novembre comunica di essere stato trasferito alla sezione
mitragliatrice.
Il 21 novembre il soldato mitragliere Panattaro
Giovanni cade colpito al capo da una granata.
Il giovane schiavandaio che sapeva bene
impugnare il tridente per dar fieno e mettere fuori letame dalla stalla
è morto maneggiando la moderna e micidiale macchina della mitraglia.
Quando suo fratello cadde in guerra la nonna
Pinota aveva 26 anni. Aveva due bambine, Jolanda di tre anni e Olga (mia
madre) di un anno e mezzo. Era sola. Il marito era al fronte. I suoi
parenti erano gente di cascina ed abitavano sparsi nelle campagne del
Vercellese.
Lei invece abitava proprio al centro del paese,
nelle case Capa.
Dalla grande piazza della Chiesa, via
Mentegazza scende per un centinaio di metri. A un certo punto la strada
piega a angolo retto verso sinistra per andare alla Casa Parrocchiale.
Solo un breve vicolo continua dritto infilandosi sotto un lungo e buio
portico quadrato che apre poi in un ampio cortile.
Di fronte si allineavano usci e finestre, sulla
destra del cortile c’erano orti, sulla sinistra stalle e fienili, in
mezzo la surbia, la pompa idraulica monumentale con l’alta colonna di
mattoni rossi dalla quale usciva la lunga maniglia di ferro e la
cannella che gettava nella vasca rettangolare di pietra. Mia nonna
abitava qui ed era una fortuna che, in quella situazione, la signora
Capa non le chiedesse l’affitto. Quando venne la feroce notizia era
ormai inverno.
Quel morto senza tomba ritornava in una
afflizione senza tregua ed era come colpa non averlo accompagnato e
pianto nel funerale di ogni cristiano.
Fu così che ella decise di camminare per
chilometri nell’inverno verso le cascine: la Grangia, Mileggio, Toli.
Doveva raccogliere dal padre, dagli zii e dai cugini le lettere del
fratello come pezzi di una vita. Riunite diventarono riferimento della
memoria e del compianto.
Sovente la sera scioglieva il pacco avvolto in
un giornale e sfogliava le cartoline postali, le cartoline illustrate e
le fotografie dello zio soldato con le bambine sedute accanto che
guardavano e chiedevano di raccontare. Mia nonna era donna attiva e
silenziosa. Ma era straordinaria la sua capacità di avvolgere e di
portare via con le favole.
Le dita che svolgevano una dopo l’altra le
lettere e le cartoline si muovevano suscitando e conducendo la maglia di
un racconto senza fine che faceva ritornare lo zio Giovanni a giocare, a
ridere, a fare scherzi con il papà che ora era lontano in guerra. Che
cos’è la guerra?
La nonna non sapeva narrare alle sue bambine
che cosa era la guerra ed esse la immaginavano come una strega, come un
enorme fantasma nero ondeggiante che copriva e portava via la gente,
come il nembo scuro di un temporale che tuona e lampeggia e fa paura..
Ora è il mese di giugno. Mia madre è morta da
tre mesi. La casa di San Germano è definitivamente vuota. Sono presso di
me le lettere del soldato, il pensiero della nonna Pinota che le
raccoglie e le conserva come reliquie, il ricordo di mia madre stremata
che cerca il nome dello zio nel Parco della Rimembranza. Avevo poco più
di sei anni nel lontano mese di giugno del 1940. Lo ricordo molto bene
quel giorno.
La "Monferrina” (questo era il soprannome della
proprietaria del Caffè-Ristorante della Stazione) aveva ricevuto
l’ordine di esporre sula finestra, verso la strada, l’enorme apparecchio
radio e di tenerlo acceso a tutto volume.
Inni patriottici e fascisti, annunci proclamati
con voce metallica e risoluta preparavano il discorso del Duce.
Sull’altro lato della strada, tra la spalletta di mattoni del ponte sula
fontana di Robarello e quella di pietra del ponte sul naviglio della
Molinara, si riunivano donne vestite in nero e ragazzi scalzi che
uscivano dal grande edificio delle Case Operaie. Gli uomini erano al
lavoro nei campi. Ricordo il delirio delle ovazioni e delle invocazioni
tra le quali il Duce dalla voce tonante ebbe difficoltà a far emergere
la parola fatale: guerra.
Da quella piazza lontana, al centro della
nazione, venne un’onda di gioia esultante. Qui invece le donne vestite
in nero restarono mute e immobili. Vidi la nonna Pinota che sollevò
l’orlo del grembiule per asciugare le lacrime. Così immediatamente e
naturalmente in quella periferia estrema popolata di braccianti e di
mondine, mi trovai, bambino, dall’altra parte.
13 giugno 2001
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