Prigionieri Alleati a San Germano e nel Vercellese

 

Nel marzo del 1943 viene emanata la disposizione di costituire presso Vercelli un campo di lavoro base per prigionieri di guerra. Dal campo dipenderanno 22 distaccamenti di lavoro per complessivi 1.415 prigionieri di guerra. Al campo, che dovrebbe entrare in funzione il 15 marzo 1943, viene assegnato il numero convenzionale P.G. N. 106 .

I circa ottantamila soldati alleati caduti nelle mani del fascismo nel corso della guerra e prigionieri in Italia, alla vigilia dell'armistizio erano detenuti in settantadue campi di prigionia e in almeno dodici ospedali militari1. Faceva parte di questo insieme anche il campo 106, che si presentava articolato in ventinove diversi distaccamenti corrispondenti ad altrettante tenute agricole o cascine. Diventato operativo nell'aprile del 1943, nelle settimane successive vi giunsero più di un migliaio di prigionieri. A giugno se ne contavano in tutto 1.509, appartenenti a quattro differenti nazionalità: 100 sudafricani, 151 neozelandesi, 435 inglesi e, infine, 823 australiani2. Eccezion fatta per un uomo della Royal Air Force, tutti quanti erano membri dell'esercito ed erano in gran parte soldati semplici. Il gruppo degli australiani e dei neozelandesi presenti al 106 (che insieme costituivano il 64 per cento dei soldati ridotti in cattività) proveniva perlopiù dal campo numero 57 situato a Gruppignano, in provincia di Udine. Lì, sotto il comando del colonnello dei carabinieri Vittorio Calcaterra, che nel suo ufficio aveva fatto affiggere la scritta: "Gli inglesi sono maledetti ma più maledetti sono gli italiani che li trattano bene"3, nei mesi precedenti erano stati costretti a sottostare ad una ferrea disciplina, di sovente accompagnata da dure punizioni per ogni minima infrazione commessa. Il loro trasferimento, avvenuto nella maggioranza dei casi su base volontaria, ebbe luogo soprattutto durante il mese di maggio: "Fu la cosa migliore che ci potesse capitare"4, ha ricordato diversi anni dopo uno di loro. Il complesso di prigionia numero 106 di Vercelli era comandato dal maggiore degli alpini Silvio Rossi e poteva contare su un corpo di guardia composto da circa millesettecento uomini. Ad utilizzare i prigionieri di guerra nei lavori agricoli erano, come si è accennato, poco meno di una trentina di aziende agrarie le quali, in assenza di un campo madre, costituivano i veri e propri luoghi di prigionia5. La mancanza di un'unica struttura centrale adibita alla raccolta dei soldati alleati catturati in Nord Africa stupì il capitano della legazione romana della Croce Rossa, Leonardo Triffi, giunto ad ispezionare il campo 106 all'inizio del giugno 1943. Il funzionario, nell'impossibilità di poter visitare tutte le articolazioni della struttura, fu costretto a limitare le sue verifiche a soli tre distaccamenti, riproponendosi di ultimare il sopralluogo in un successivo momento. Il suo rapporto, conservato negli Archivi di Londra, è articolato in dodici punti. Una descrizione particolareggiata riguarda le caratteristiche degli alloggi e dei servizi presenti nei distaccamenti della tenuta Petiva (San Germano) (I), di Tronzano (II) e della tenuta Veneria (Lignana) (VII). Mentre in quest'ultimo sottocampo i prigionieri erano alloggiati in bungalow, nelle dipendenze I e II erano presenti edifici in pietra giudicati pienamente soddisfacenti anche se, nel primo distaccamento, non mancavano di essere messi in luce sia un certo sovraffollamento, sia una serie di carenze sotto il profilo sanitario. Il cibo, secondo le testimonianze raccolte dal funzionario nel corso della sua breve ispezione, era ritenuto dai prigionieri sufficiente, a patto però che fosse contemporaneamente integrato da una regolare distribuzione dei pacchi provenienti dalla Croce Rossa. Sul piano quantitativo ad ogni prigioniero spettavano 400 grammi di pane, 120 di pasta o di riso, 13 grammi di grasso, 10 di formaggio grattugiato, 15 di salsa di pomodori, 15 di zucchero, 30 di legumi, 20 grammi di sale e 7 grammi di caffè. Settimanalmente, inoltre, ricevevano 240 grammi di carne, 250 di formaggio e, infine, potevano contare su uno sconto di 1 lira per l'acquisto di vegetali freschi. Il funzionario, dopo questa dettagliata descrizione, sottolineava come le spettanze fossero identiche a quelle riservate ai soldati addetti alla sorveglianza. Sotto il profilo lavorativo, invece, Triffi annotava che una giornata ordinaria aveva una durata di 8 ore o poco più, a seconda se nell'orario fosse conteggiato o meno il tempo necessario per recarsi nei campi, e in ogni caso non era più lunga di quella dei civili. Per la loro attività giornaliera i soldati alleati ricevevano un compenso pari a 4 lire e 50, che si sommava all'onorario di 1 lira spettante per il loro stato di prigionia. In questi tre distaccamenti per i prigionieri non erano previsti abiti da lavoro ma, dato il loro buon equipaggiamento, questo non risultava essere un problema degno di rilievo. Ogni settimana, generalmente la domenica, avevano infine diritto a 24 ore di riposo. Gli aspetti negativi rilevati da Triffi riguardavano i ritardi nella distribuzione della posta, la mancata assegnazione delle sigarette, l'insufficienza dei pacchi della Croce Rossa, che arrivavano in numero inferiore rispetto a quello dei prigionieri presenti, il sovraffollamento nelle baracche del distaccamento numero I, la sospensione dell'assegnazione del sapone per evitare che finisse sul mercato nero e, per concludere, la totale mancanza nei distaccamenti di un adeguato servizio sanitario. La situazione generale, concludeva il funzionario nel suo rapporto, non era pertanto soddisfacente come in altri campi che aveva avuto modo di visitare in precedenza. Ad aiutarci ad ampliare il quadro della realtà presente nel complesso 106 sono alcune testimonianze di ex prigionieri che vi furono allora detenuti. Le condizioni migliori furono vissute da coloro che si trovarono impiegati in attività diverse da quelle agricole. L'australiano Jim Wilson7, ad esempio, arrivato nel distaccamento della tenuta Carpeneto (Bianzè) all'inizio del maggio 1943, fu impiegato come fabbro. La sua occupazione, mettendolo costantemente in contatto con i civili, gli permise sia di apprendere un minimo la lingua italiana, sia di svolgere lavori presso i privati, grazie ai quali riuscì a procurarsi abiti civili e una piccola somma di denaro, che poi gli tornarono utili quando, dopo l'8 settembre, si diede alla fuga. Malcolm Webster, anch'egli australiano, ha messo invece in evidenza le precarie condizioni esistenti alla cascina Oschiena (Crova) (XVI): "La sistemazione era sgradevole, le baracche di legno erano piccole, sovrappopolate, mancava l'aria a causa delle doppie porte tenute chiuse dalle guardie". Del tutto simile era anche la situazione dei neozelandesi tenuti prigionieri ad Arro (Salussola), nel distaccamento numero XX. Al ritorno dal lavoro dormivano principalmente nelle stalle ed a tormentarli erano soprattutto gli sciami di zanzare. Anche qui i locali dove trascorrevano la notte erano sovraffollati e ad accentuare il loro malessere concorreva la scarsa possibilità di avere a disposizione adeguati quantitativi d'acqua. Il soldato Ted Faulkes, che faceva parte di un gruppo occupato alla tenuta Brianco (Salussola), ha invece ricordato come, dopo un difficile periodo iniziale, la condizione dei prigionieri di guerra migliorasse sensibilmente, in particolar modo sotto il profilo alimentare, grazie alle pressioni del proprio rappresentante, che riuscì ad ottenere un intervento del titolare della tenuta presso le autorità fasciste competenti. A suo giudizio, più che i lunghi tragitti da compiere per recarsi nei campi, le fatiche lavorative o le condizioni alimentari, a pesare maggiormente erano i problemi legati ai disagi fisici causati dalla febbre malarica. In questo distaccamento, infatti, diversi prigionieri furono ricoverati all'ospedale di Vercelli per essere curati con massicce dosi di chinino. Anche l'australiano Edgard Kent era impiegato in varie attività agricole le quali, seppur giudicate pesanti, avevano il merito di rompere la routine della prigionia. La possibilità di lavorare e di vivere all'aria aperta rappresentava una dimensione completamente diversa rispetto a quella che aveva conosciuto fino ad allora nella sua lunga cattività: "Meglio che in un campo di concentramento, non c'era alcun interesse lì". Le fatiche dei lavori in campagna, tanto più rilevanti se si considera che la maggior parte dei prigionieri aveva alle spalle un lungo periodo di inattività, erano secondo Kent compensate dalla possibilità di ricevere razioni di cibo supplementari che favorivano così un costante miglioramento della loro salute. Il neozelandese Frank Bowes era dello stesso avviso. Scrivendo alla moglie, fra il maggio e il giugno del 1943, parlò di come il lavoro cui era adibito lo riavvicinasse alle abituali attività svolte prima della guerra. In questo contesto il soldato neozelandese si trovava riconciliato con se stesso e, di fronte all'ulteriore periodo di prigionia che avrebbe dovuto affrontare, si diceva privo di particolari preoccupazioni. Il perdurare di alcuni aspetti negativi nella vita dei distaccamenti, la solidarietà che legava tra loro i prigionieri e il desiderio di continuare a combattere seppur in altre forme il nemico, furono all'origine di svariate proteste e di molteplici azioni di sabotaggio che si verificarono nelle diverse tenute lavorative. Nel sottocampo numero I, il medesimo giorno della visita del funzionario della Croce Rossa, era in corso uno sciopero che fu sospeso solo quando il rappresentante dei prigionieri, dopo essere stato ascoltato dal comandante del campo, ricevette l'assicurazione che non ci sarebbero state punizioni legate all'agitazione. Nel distaccamento di Salussola (XIX) invece, le autorità dovettero contrastare la protesta dei soldati che si rifiutavano di prestare il servizio lavorativo procedendo ad alcuni arresti. L'intervento delle autorità, però, non servì a placare gli animi. Gli ottanta prigionieri di guerra del distaccamento, suddivisi equamente fra australiani e neozelandesi, passarono al sabotaggio degli strumenti di lavoro. In breve tempo l'attrezzatura fu dimezzata e, non potendo essere sostituita, in pratica i prigionieri si alternarono lavorando un giorno e riposando quello successivo. Ad Arro, invece, riuscirono a convincere le guardie che, in conformità ad un'abitudine neozelandese, avevano diritto ogni ora a dieci minuti di pausa sigaretta. Per sfuggire al lavoro in risaia, in un'altra circostanza, si appellarono ad un'inesistente clausola della convenzione di Ginevra secondo la quale i prigionieri non erano tenuti a lavorare in acqua. Douglas Lefevre ha rammentato come nel suo distaccamento fossero frequentemente prese di mira le chiuse e che lui stesso contribuì in maniera determinante a rendere inabile un trattore per alcuni mesi. Un'altra azione abbastanza diffusa era quella di agire nel tentativo di danneggiare i prodotti che si ipotizzava avessero come destinazione la Germania. Nel raccolto destinato al Reich, pertanto, erano inseriti escrementi, mattoni, ogni cosa che potesse in qualche modo avariare il cibo. Il capitano australiano Henry Jack Kroger, dopo il crollo dello stato italiano e l'arrivo dei prigionieri in Svizzera, ebbe modo di ascoltare la voce di numerosi soldati australiani del campo 106. Un suo rapporto conferma come i fatti precedentemente descritti non fossero affatto episodici. Secondo la sua relazione, nei distaccamenti del 106 dal punto di vista produttivo fu fatto "molto poco", tanto che la settimana lavorativa gli sembrava consistere in scioperi, sabotaggi generali ai macchinari, ai raccolti ed ai terreni. A vigilare i prigionieri e ad assolvere a tutti i compiti per il funzionamento del complesso era impiegato un numero di soldati italiani di poco superiore a quello degli imprigionati presenti nei diversi distaccamenti. La sorveglianza aveva luogo 24 ore al giorno, ma in alcune circostanze, come durante le ore di lavoro nei campi, era per forza di cose alquanto blanda. Dai diversi distaccamenti del campo si verificarono in ogni caso solo rari tentativi di fuga. Nel periodo compreso tra il 1940 e l'annuncio dell'armistizio, del resto, i prigionieri alleati che tentarono di evadere dai campi italiani furono seicentodue e solo sei riuscirono a conseguire il loro obiettivo. In pratica, in poco più di tre anni, fu tentata una fuga ogni cento prigionieri ed una sola ogni diecimila riuscì. Una di queste fu quella messa in atto da Edgar Triffet. Scappato dal distaccamento di Tronzano Vercellese, l'australiano riparò a Champoluc, dove un parroco lo tenne nascosto fino al giorno dell'armistizio. Gli altri tentativi verificatisi al 106 furono invece tutti destinati all'insuccesso. Il primo avvenne nel distaccamento di Salussola, dove il sergente maggiore responsabile del campo faceva un appello la mattina ed uno alla notte. In quest'ultimo, però, era meno puntiglioso e si limitava a contare gli stivali dei prigionieri. Confidando in questa pratica, due australiani decisero di fuggire in sandali, ingannando così la sorveglianza. Rimasero latitanti per cinque giorni, al termine dei quali furono nuovamente catturati. Nessuno dei compagni di prigionia li rivide, mentre il sergente maggiore fu immediatamente rimosso. Nel distaccamento di Petiva, ad ideare un piano di fuga furono invece Bert Wainewright e Johnny Moore. Sfruttando un canale in prossimità delle loro baracche e spalleggiati dai propri compagni, che distrassero le guardie, i due australiani riuscirono ad abbandonare il sottocampo per poi separarsi. Moore, infatti, era intenzionato a raggiungere la Francia, mentre Wainewright sperava di riuscire ad arrivare in Svizzera. Quest'ultimo rimase in fuga quattordici giorni, spostandosi di notte e nascondendosi durante le ore del giorno. Non conoscendo i luoghi in cui si muoveva ed avendo a disposizione poco cibo ed altrettanta poca padronanza della lingua italiana, la sua evasione era segnata fin dall'inizio. Una brutta caduta, poi, lo costrinse ad abbandonare l'idea di superare le Alpi. All'alba del quattordicesimo giorno, ormai allo stremo delle forze, si imbatté in una pattuglia italiana che, dopo averlo interrogato, lo rispedì al distaccamento di Petiva, dove fu rinchiuso in una angusta baracca per trentun giorni consecutivi. A fargli compagnia c'era anche Johnny Moore il quale, invece, era stato catturato dopo una settimana. Altrettanto sfortunata fu l'evasione di cinque prigionieri dal distaccamento di San Germano Vercellese. John Desmond Peck ed altri quattro compagni, dopo aver superato il filo spinato del campo, riuscirono a spingersi fino al confine svizzero. Davanti a loro, da diversi giorni senza cibo, si presentarono però le montagne. Per rifocillarsi e riprendere le forze cercarono aiuto da un pastore il quale, anziché con il cibo promesso loro, si ripresentò accompagnato dai carabinieri. Anche per questo gruppetto si aprirono le porte delle celle di punizione. Secondo il rapporto stilato dalle autorità fasciste sarebbe da addebitare ad un tentativo di fuga anche l'uccisione, avvenuta il 15 giugno del 1943 nel distaccamento di Carpeneto, del soldato australiano John Ernest Law. Stando alla testimonianza già citata di Sergio Rigola, i motivi dell'uccisione furono invece altri. I prigionieri, infatti, a volte si lanciavano in audaci scommesse, come quella di avvicinarsi il più possibile ai reticolati. La morte di Law, così, era attribuita ad un militare troppo ossequiente al regolamento, spinto in tal senso da un atto sconsiderato della vittima stessa. I prigionieri di guerra del campo 106 hanno fornito un'ulteriore versione dei fatti. John Ernest Law, durante la giornata del 15 giugno, aveva concordato con una guardia l'acquisto sottobanco di una certa quantità di pane. Nonostante fossero una pratica proibita, questi traffici non costituivano un fatto insolito ed avvenivano con una certa frequenza. La sera stessa John Law fu chiamato dall'esterno. Uscì quindi dalla baracca e, convinto di ricevere il pezzo di pane pattuito, si arrampicò sul muro di cinta. Una volta in cima, però, la guardia aprì il fuoco contro di lui. "Fu un brutale tranello", ha testimoniato Dudley Sedgwick, che, in aggiunta, ha anche ricordato come il corpo del commilitone fu lasciato nella posizione in cui era caduto per le restanti 36 ore. La sentinella che sparò, secondo la deposizione di Sedgwick, era stata precedentemente punita per essersi addormentata in servizio. A spingere al vile comportamento della guardia, quindi, ci fu la volontà di riscattarsi agli occhi del comando oppure il desiderio di rivalsa contro uno dei presunti responsabili del richiamo subito. Colui che nutriva il suo spirito di vendetta, forse, era lo stesso soldato che, appisolatosi sotto un albero, si era visto sottrarre il fucile da quei Pow che in teoria doveva attentamente sorvegliare.

La fuga

Una speranza chiamata Svizzera Tra la fine di maggio e primi giorni di giugno del 1943 il colonnello Norman Crockett, che era alla guida del Mi9, l'organo all'interno del Soe preposto all'intervento in favore dei prigionieri di guerra, emanò una direttiva con la quale s'invitavano i soldati alleati prigionieri in territorio italiano a non tentare fughe di massa. La disposizione, ribadita anche il 5 settembre, contrastava con il promemoria inviato dalle autorità italiane ai responsabili dei campi il giorno seguente, nel quale era rammentato di evitare che i prigionieri cadessero in mano tedesca. La contraddittorietà di questi ordini, unitamente alla particolare condizione dei singoli prigionieri che avevano alle spalle mesi, se non anni, di prigionia, impedì un numero di evasioni superiore a quelle che si realizzarono nei giorni immediatamente successivi all'armistizio. Degli ottantamila prigionieri presenti in Italia, infatti, più della metà furono immediatamente catturati dalla Wehrmacht e trasferiti nel Reich. Al comando del campo 106 la notizia dell'armistizio provocò "confusione e smarrimento". Il sergente maggiore Sergio Rigola, dopo essersi messo in abiti borghesi per precauzione, trascorse parte della giornata del 9 settembre a contattare i vari distaccamenti affinché procedessero a lasciare liberi tutti i prigionieri. Le guardie agirono risolutamente e poi si eclissarono: "Presero tutto al volo. Eseguirono e tagliarono la corda". Nelle ore seguenti, pertanto, i soldati alleati non ebbero alcuna difficoltà ad abbandonare i distaccamenti in cui si trovavano. L'australiano Phil Loffman, ad esempio, ha ricordato che, dopo averli allineati, il responsabile italiano disse loro: "La guerra è finita [...] Voi, voi inglesi, fareste bene a prendere la strada per Londra". Nel distaccamento di Carpeneto, invece, le guardie minacciarono di aprire il fuoco, ma i prigionieri non si lasciarono intimidire: imprecarono contro di loro e si allontanarono, a dispetto delle minacce, senza incorrere in alcun problema. Una volta abbandonati i luoghi di detenzione, i fuggitivi trovarono l'immediata solidarietà della popolazione. Per un primo aiuto fondamentale molti si rivolsero ai contadini al fianco dei quali avevano lavorato nei mesi precedenti, oppure agli stessi proprietari delle tenute. Ovunque la risposta fu positiva. Nelle giornate del disastro badogliano, davanti ad una massa di soldati in fuga, sia italiani che stranieri, la popolazione civile, e specialmente quella rurale, diede prova di una sconfinata solidarietà. Ha scritto Nuto Revelli: "Tutti i contadini, ma soprattutto i contadini poveri, soprattutto i proprietari di miseria, sono i primi nel dare". Il soccorso poteva essere fornito da singoli nuclei familiari, come nel caso dei coniugi Lomagno, sfollati a Crova. La coppia incontrò due australiani in fuga il 20 settembre. Erano affamati ed il primo gesto dei Lomagno fu quello di invitarli nella propria abitazione: "Poveri ragazzi, sono stato poi con gli occhi aperti nel vederli mangiare dalla fame che avevano quando ci siamo messi a cena". I Lomagno, aiutati da alcuni vicini, continuarono ad assisterli e a tenerli nascosti fino alla metà di novembre. Poi, quando ai due ex prigionieri si presentò l'occasione giusta, i loro soccorritori fecero un nuovo sforzo: "Li abbiamo dato £. 1800. Per la guida e poi una giubba e un paio di pantaloni e le o dato una fotografia che eravamo io la moglie e il bambino insieme". Ciò che accadde a Monticelli (Crescentino), invece, è forse l'esempio più significativo dello slancio di un'intera comunità. I cinquanta prigionieri del distaccamento, il 12 settembre, furono presi in carico dal capitano Paolo Torta che si adoperò per sistemarli temporaneamente nelle diverse famiglie della zona. Queste ultime, d'altronde, dietro suo invito, si erano in precedenza già preoccupate di rimediare a tutti un abito civile. Le motivazioni potevano però avere anche un significato squisitamente politico, come nel caso di Ferdinando Ormea che, nella zona di Vercelli, si attivò prontamente e, dopo aver radunato diversi fuggitivi nei paesi di Asigliano, Caresana e Desana, li condusse personalmente fino a Domodossola. I soldati alleati che puntarono immediatamente al confine, invece, si imbatterono nei pressi di Borgosesia nell'azione di due ufficiali dell'esercito, Luciano e Nicola Travisi, che si erano messi sulle tracce dei prigionieri di guerra per radunarli e poi affidarli ai fratelli Peretto, resisi disponibili come guide. Il 12 settembre furono così avviati verso la Svizzera sette soldati alleati, il giorno successivo fu la volta di altri dodici, il giorno 19 ne vennero rintracciati e indirizzati oltre confine ancora diciannove. Questi primi espatri diedero il via ad un flusso destinato nei giorni e nelle settimane successive ad accrescersi considerevolmente. Il 21 settembre raggiunse la Svizzera il sergente neozelandese Peagram. Le sue vicende sono l'esemplificazione di centinaia di percorsi e di altrettante storie individuali che si intrecciano tra loro. Clarence Peagram, dopo aver abbandonato il distaccamento numero XX il 9 di settembre, si recò inizialmente a Valdengo, dove ricevette dal contadino Paolo Bernino denaro, vestiti, informazioni nonché alloggio per due giorni. Poi fece tappa a Pettinengo. In questo caso ad aiutarlo fu una donna, che lo tenne nella sua abitazione altri tre giorni, fornendogli del denaro ed utili indicazioni. In questa località il neozelandese incontrò infine Giorgio Bella, il quale soddisfece ogni sua richiesta e, soprattutto, lo mise in contatto con le guide. Peagram fu quindi accompagnato ad Oropa, a Gaby, a Gressoney St. Jean, a Courmaz e, infine, arrivò in Svizzera passando per il monte Rosa. Alcuni anni più tardi, ricordando quelle giornate, il sergente neozelandese sottolineò l'impegno della popolazione, senza la quale la fuga sarebbe stata se non impossibile, certamente più ardua: "Quelle persone, per quanto fossero povere, fecero per noi tanto quanto ci saremmo aspettati dalla nostra stessa gente, e non ci si deve dimenticare che erano nemici". Il suo connazionale Dennis John Gibbs varcò il confine il giorno seguente. Assieme ad altri compagni neozelandesi era partito la notte di sei giorni prima, dalla zona di Biella. Durante la marcia compiuta per raggiungere Macugnaga ricevette aiuto dai contadini, che gli fornirono cibo, scambiato a volte con del sapone o del caffè canadese, lo ospitarono permettendogli il riposo e lo tennero informato sulla presenza di tedeschi e fascisti, riuscendo così ad evitare la cattura. In condizioni meteorologiche difficili superò il passo del Moro e poi, finalmente, dopo un primo momento di smarrimento, incontrò un soldato: "Era svizzero e ce l'avevamo fatta". Con il trascorrere delle settimane, e quindi con l'aumentare dei presidi nemici ed il peggiorare delle condizioni climatiche, gli espatri diventarono sempre più pericolosi e critici anche perché, come ebbe a sottolineare Cino Moscatelli, molti arrivavano per intraprendere la traversata "in calzoncini corti e con le scarpe da tennis ai piedi quando lassù la neve era già alta". I passaggi attraverso la catena alpina, pertanto, in diverse testimonianze sono rimasti impressi come momenti estremamente duri e sono stati descritti talvolta in termini drammatici. L'australiano Arthur Jobson, che affrontò il viaggio il 2 ottobre, ha lasciato questo resoconto: "Quando sorse l'alba c'incamminammo lungo un sentiero largo cinque piedi posto in faccia ad un precipizio che sembrava estendersi migliaia di piedi sotto di noi. Un percorso infernale era sopra di noi per arrivare alla cima". Il neozelandese Laurie Read, dopo una breve permanenza con le formazioni di Moscatelli, intraprese la traversata poco dopo la metà del gennaio 1944. Giunse in vetta al passo del Moro alle 7.30 di sera: "Uno dei nostri ragazzi rinunciò e ritornò con i ribelli. Poi affrontammo una discesa da far rizzare i capelli in mezzo alla neve fresca, al ghiaccio, poi la neve ghiacciata, giù per questa montagna alta più di 2.100 metri. Non c'era la luna ed il riflesso della luce delle stelle sulla neve non illuminava abbastanza. […] Le quattro ore successive furono le peggiori della mia vita, persino delle azioni di combattimento [...] se avessimo visto di giorno ciò che avremmo dovuto passare, sono sicuro che molti di noi non ce l'avrebbero fatta".

L'assistenza e l'aiuto dei civili Oltre che della solidarietà spontanea inizialmente offerta dalla popolazione civile, nelle settimane successive all'8 settembre i prigionieri in fuga poterono usufruire delle reti di assistenza create dal movimento antifascista. A Biella, ad esempio, era particolarmente impegnato in tal senso Vittorio Pozzo che operava appoggiandosi agli ambienti liberali della cittadina. L'organizzazione più incisiva, ad ogni modo, era quella attiva nel Vercellese. Il primo tentativo di condurre in salvo i prigionieri alleati compiuto in quella zona, per la verità, si era risolto in un vero fallimento. Il piano di trasferire un centinaio di fuggiaschi nell'alta valle dell'Elvo, infatti, fu sbaragliato da alcuni reparti tedeschi nei pressi della Serra d'Ivrea. Ai primi di ottobre, come conseguenza di questa prima infelice esperienza, a Vercelli sorse un'organizzazione, destinata ad operare fino alla fine del gennaio 1944, più puntuale ed efficiente. Al vertice della struttura agiva il professor Ermenegildo Bertola, successivamente presidente del Cln vercellese. Nel suo operato fu affiancato da due australiani: Claude Webb e John Desmond Peck. Quest'ultimo, una volta lasciato il distaccamento di San Germano, si era messo in contatto con alcune personalità di Vercelli, entrando subito in azione ed accompagnando al confine i primi drappelli di prigionieri. Peck, del resto, aveva svolto il medesimo lavoro già in passato quando, sull'isola di Creta, sfuggito ai tedeschi, aveva operato in stretto contatto con le missioni inglesi impegnate a far evacuare dall'isola gli evasi dai campi di prigionia. La rete di Vercelli comprendeva una serie di piccoli commercianti i cui esercizi divennero i punti per lo scambio di informazioni e, verosimilmente, gli appoggi logistici temporanei per i prigionieri in attesa di essere trasferiti in Svizzera. Facevano parte dell'organizzazione Carlo Ferrando, negoziante di vino, i fratelli Luzzi, commercianti in generi coloniali, Pino Agrati, titolare di una calzoleria, ed Oreste Barbero che, per l'attività clandestina, mise a disposizione la propria caffetteria. L'organizzazione, dopo aver rintracciato i prigionieri di guerra in fuga, rimediava loro abiti civili ed un pacco di generi alimentari necessari per affrontare alcuni giorni di viaggio. Poi venivano costituiti dei gruppi composti da circa sei persone le quali, una volta accompagnate alla stazione ferroviaria di Vercelli, erano affidate ad uno dei due soldati australiani che si alternavano nel condurli al confine. Per sfuggire ai controlli, ogni spedizione seguiva un itinerario diverso. George Christopher Rea, con altri tre australiani, salì su un treno a Vercelli nei primi giorni del 1944 e riuscì a raggiungere la Svizzera il 5 gennaio: "C'erano ufficiali e soldati tedeschi che salivano e scendevano dal treno, noi fummo accompagnati in un vagone in fondo. Era un vagone buio. Entrammo, non potevamo vedere nessuno ma sapevamo che altri erano lì. Non fu detta una parola, le porte si chiusero e cominciammo il nostro viaggio. Dopo un po' il treno si fermò illuminando la stazione di Novara. Ci siamo alzati ed abbiamo visto che circa 12 Pow inglesi erano con noi. Prendemmo un altro treno sedendoci tra i civili. Nessuno ci venne vicino o parlò e così procedemmo finché ci fermammo alla stazione di Verbania - Pallanza ed uscimmo. Era l'alba, tutto il nostro gruppo camminò lungo una strada verso le montagne per 8 miglia, poi lasciammo la strada e cominciammo a salire lungo un sentiero. Per due o tre giorni, ogni guida ci condusse attraverso la sua zona il più velocemente che potevamo". Il lavoro svolto dall'organizzazione fu particolarmente intenso soprattutto nei primi due mesi, permettendo l'espatrio di almeno duecento prigionieri. I trasferimenti, seppur ridotti, continuarono comunque anche nel periodo successivo. Di lì a poco, tuttavia, la struttura clandestina sarebbe stata smantellata dalla polizia fascista. A metà gennaio, nelle mani dei repubblichini caddero prima Claude Webb, successivamente internato in uno Stalag in Germania, poi Ermenegildo Bertola ed Oreste Barbero. Mentre questi ultimi sopportavano le feroci torture degli uomini della "Tagliamento", il cerchio si strinse e nella rete rimasero invischiate anche alcune donne collegate con il lavoro di assistenza ai prigionieri evasi. In seguito agli arresti, le altre figure dell'organizzazione, tra le quali lo stesso Peck, che era riuscito a sottrarsi solo all'ultimo momento alla cattura, si videro costrette a sospendere il lavoro e ad abbandonare la zona. Dei 380 neozelandesi che riuscirono a mettersi in salvo in Svizzera, 75, pari cioè al 20 per cento, provenivano dai satelliti del campo 106. Per ciò che riguarda gli australiani non si dispone di stime simili. Ad ogni modo, da settembre a dicembre, 390 di loro riuscirono a superare le Alpi. Un numero considerevole degli appartenenti a queste due nazionalità che avevano lavorato nelle varie cascine del campo 106, quindi, rimase in Italia molto più a lungo dei propri connazionali, godendo della protezione e del sostegno della popolazione civile. Sei mesi dopo l'armistizio, secondo i dati degli Alleati, erano presenti in Piemonte ancora un migliaio di ex prigionieri, poco meno della metà dei quali si trovavano nelle province di Novara e Vercelli. Nel successivo mese di ottobre il loro numero scese a 400 e, in questo caso, la maggior parte, 250 circa, si erano stabiliti nel Biellese e in Valsesia. Secondo lo stesso rapporto, nel solo Piemonte, le persone civili coinvolte nello sforzo di sottrarre gli ex prigionieri alla cattura erano 5.000, cinque volte tanto il numero degli assistiti. L'impegno dei civili, pertanto, non si esaurì nelle prime settimane, ma continuò a dispiegarsi anche nei mesi successivi. Luigi Mella, di Salussola, incontrò due fuggiaschi prima della fine del settembre del 1943: "Il giorno 22.9.1943 trovai in un bosco 2 prigionieri di guerra alleati (Australiani). Uno di nome Edoardo e l'altro di nome Enrico. Invitai costoro a casa mia e diedi loro da mangiare e da bere e così fu in seguito". I due australiani, per diversi altri mesi, continuarono ad appoggiarsi ai loro primi soccorritori. Ricevettero così capi d'abbigliamento, scarpe, quando si ammalarono medicine, furono sfamati e, nei momenti di calma, poterono contare su un posto sicuro dove dormire: "Quando tutto era tranquillo essi stavano in casa mia e dormivano sotto una tettoia; invece quando vi erano rastrellamenti stavano nascosti nei boschi ritornando a casa mia verso tarda sera per mangiare". Invece Malcolm Webster e William Wrigllesworth, dopo aver tentato invano di scavalcare le linee e di raggiungere il Sud Italia, furono accolti dalla famiglia Confienza, a Mezzana. Quando, a causa dei ripetuti rastrellamenti, i due australiani si allontanarono dalla zona costruendo un rifugio sotterraneo nei pressi di Rongio (Masserano), i coniugi Confienza continuarono nella loro pericolosa attività raccogliendo il cibo che settimanalmente gli ex Pow, aumentati di numero, tornavano a recuperare compiendo tragitti che duravano oltre quattro ore di cammino. L'aiuto prestato dai Confienza si protrasse per ben cinque mesi, interrompendosi solo con l'ingresso di Webster e Wrigllesworth nel distaccamento della 110ª brigata "Fontanella"Il caso più emblematico, però, è forse quello che vide come protagonista Clelia Peretti, di Netro. La donna fu al centro di una rete di assistenza che permise per un lunghissimo periodo la salvezza ad un grande numero di soldati alleati. Quattro neozelandesi e nove australiani chiesero alla Allied Screening Commission di premiare tanto coraggio firmando la seguente dichiarazione: "Questa per certificare che la signora Peretti Clelia di Netro, Biella, durante i 18 mesi dell'occupazione tedesca nel Nord Italia, senza curarsi di rischi personali e costi, ha rifornito un grande numero di ex prigionieri di guerra di cibo, vestiti, sigarette, e medicine per i malati. Furono molti i viaggi fatti da questa donna inginocchiata nella neve con cibo ecc. per gli ex Pow nascosti nelle montagne. Un'altra volta quando per 9 giorni la sua casa fu occupata da ufficiali tedeschi e fascisti che comandavano un rastrellamento in questa zona, ella nascose e nutrì nello stesso edificio 8 uomini armati (Britannici) ed un ex prigioniero polacco".

Prigionia, sopravvivenza e Resistenza Storie di australiani e neozelandesi in provincia di Vercelli (1943-1945) - Massimiliano Tenconi

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- Dopo l’8 settembre almeno prigionieri di guerra si allontanano dai campi; più della metà non si fa raggiungere; nel Piemonte orientale almeno 5000 ex prigionieri, in prevalenza inglesi ma anche australiani, neozelandesi, sudafricani;

- fine marzo ’44: 1000 prigionieri in Piemonte, 400 tra le province di Novara e Vercelli, 100 con i partigiani fine agosto ’44: 800 prigionieri in Piemonte (5000 nel nord Italia) ottobre ’44: 150 prigionieri tra Monferrato e canadese; 250 tra Biella e la Sesia

Campo di prigionia PG106

Sede a Vercelli, di fronte ai giardini della stazione, affidato al 63^ Reggimento di fanteria

attivo dal marzo ’43

aprile ’43 : 1682 prigionieri;

sottocampi in varie tenute della provincia (da 50 a 200 prigionieri ciascuno)

 

Elenco (incompleto) dei sottocampi dipendenti dal campo PG106 di Vercelli

 

Tenuta Carpeneto

Bianzè

Tenuta Pomerana

Lignana

Cascina Oschiena

Crova

Tenuta Viancino

Tenuta Veneria

Tenuta Castelmerlino

Livorno Ferraris

Castell’Apertole

Tenuta Palestro

Olcenengo

Tenuta Castellone

Cascina Vallasino

Tenuta Lachelle

Ronsecco

Tenuta Selve

Salasco

 

Elenco (incompleto) dei sottocampi dipendenti dal campo PG106 di Vercelli

 

Cascina Impero

Salussola (BI)

Cascina Baraccone

Cascina Arro

Tenuta Petiva

San Germano

Frazione Vettigné

Santhià

Tenuta Foglietta

Tronzano

Cascina Riccarda

Capannoni di via Alberti (ex fabbrica Rondò)

Vercelli

Cascina Coltellino (reg. Isola)

Tenuta San Benedetto di Muleggio

Cascina Dallodi

Tenuta Langosca

Villarboit

Castello di Vinzaglio

Vinzaglio (NO)

 

“Prigionieri di guerra” di Giorgio Nascimbene, ed. Società operaia di mutuo soccorso di Villata, 2004

SULLE TRACCE DEL SOLDATO GEORGE ALFORD - Il militare australiano prigioniero in Italia che visse a San Germano

George Alford faceva parte di un folto gruppo di soldati australiani prigionieri che durante l’ultima guerra erano internati nei campi di lavoro delle cascine Petiva e Robarello di San Germano, che furono aiutati dagli abitanti delle stesse tenute agricole e dai partigiani ai quali si erano poi uniti per combattere: alcuni, come nel caso di George Alford, alle pendici del Monte Rosa, riuscendo poi a riparare in Francia e ritornare dopo la guerra in modo fortunoso in Australia.

A darci la notizia della visita di Annette O’Connor, che attraverso i racconti del padre è riuscita a ricostruire le varie fasi della sua prigionia, è stata Sara Rocutto, presidente dell'Anpi di Vercelli, contattata dalla O’Connor.

George Alford faceva parte di un folto gruppo di soldati australiani prigionieri che durante l’ultima guerra erano internati nei campi di lavoro delle cascine Petiva e Robarello di San Germano, che furono aiutati dagli abitanti delle stesse tenute agricole e dai partigiani ai quali si erano poi uniti per combattere: alcuni, come nel caso di George Alford, alle pendici del Monte Rosa, riuscendo poi a riparare in Francia e ritornare dopo la guerra in modo fortunoso in Australia.

A darci la notizia della visita di Annette O’Connor, che attraverso i racconti del padre è riuscita a ricostruire le varie fasi della sua prigionia, è stata Sara Rocutto, presidente dell'Anpi di Vercelli, contattata dalla O’Connor. Michela Rosetta, primo cittadino di San Germano, si è prontamente attivata per accogliere Annette O’Connor con una cerimonia ufficiale cui saranno presenti il professor Michele Battezzati e Paolo Cerati, i discendenti di Laura Cerati Battezzati, figlia del proprietario della tenuta Robarello che aveva conosciuto ed aiutato George Alford e gli altri prigionieri australiani.

La visita di Annette O’Connor, ci riporta ad una interessante ricerca compiuta nel 1995, quando il giornalista David Sheath del Chronicle di Toowoomba (Queensland) si era messo in contatto con chi scrive per cercare le tracce di un altro prigioniero australiano, Fred Brockel (appartenente al 2/15th battaglione dei ‘Diggers’ australiani e commilitone di Alford), che prima di morire, aveva voluto rintracciare a Robarello coloro che lo avevano aiutato a fuggire. All’epoca era ancora in vita Laura Cerati Battezzati, che ricordava bene i prigionieri australiani. Ci fu allora anche un collegamento in diretta con Rai International nel programma ‘Pronto Australia, qui Italia’ durante il quale Laura Cerati Battezzati da Robarello e Fred Brockel da Toowoomba si poterono salutare direttamente. Lo stesso Brockel citò spesso George Alford in un suo memoriale, redatto poco prima della sua morte avvenuta nel 1997, intitolato Freedom e di cui in un primo momento non si era esclusa la realizzazione di un film in Australia.

www.vercellioggi.it

La Tenuta di Robarello

 

George Alford