Carlo Magno e i Longobardi e la leggenda del Saltus Caroli
La storiografia descrive i Longobardi come un popolo barbaro, calato in Italia sulle ceneri dell’Impero romano, poco conosciuto, al quale si riconosce, dopo la sconfitta subita dal loro ultimo re, Desiderio e l’esilio di suo figlio Adelchi, il solo merito di aver contribuito alla grandezza di Carlo Magno, calato in Italia coi suoi Franchi a difesa del Papato.
In realtà, con la loro sconfitta, ai Longobardi fu impedito di fungere da coagulo nella formazione di uno stato unitario italiano e nulla valse il tardivo tentativo d’Arduino d’Ivrea, indirizzatosi sulla stessa via duecento anni dopo. A causa di ciò, l’Italia divenne unica solo dieci secoli avanti, con tutte le conseguenze sociali, economiche e culturali che la rendono ancora oggi un paese un po’ anomalo nel contesto europeo occidentale.
Raccontano i manuali di Storia, che la calata di Carlo Magno in Italia avvenne nella primavera dell’anno 773, per richiesta di Papa Adriano I, ultimo Pontefice di Roma ad inserire nelle clausole di datazione il nome dell’Imperatore regnante in quel momento a Bisanzio.
Dicono le cronache, che Carlo, visti inutili i tentativi di pacificazione tra il re longobardo Desiderio ed il Papa, riunì il suo esercito, probabilmente composto di poche migliaia di cavalieri, a Ginevra ed affidatone la metà allo zio Bernardo, si mise in viaggio verso la Tarantasia, con l’intenzione di valicare il Moncenisio e penetrare in Italia dalla Valle di Susa.
Bernardo, da parte sua, iniziò a risalire verso il passo del Gran San Bernardo, con l’intenzione di invadere l’Italia attraverso la Valle d’Aosta, d’altronde, almeno sino a Bard, già nominalmente parte del regno franco.
Narra la tradizione, che il re franco superò le Chiuse Longobarde della valle di Susa per merito di un giullare, che per mezzo di una filastrocca, indicò a Carlo il sentiero adatto per cogliere alle spalle il nemico. Sia vera o no questa versione dei fatti, fornita nell’XI secolo da un monaco della Novalesa, poco importa, ricordo però che una manovra simile era realmente avvenuta nel luglio del 754, al tempo dell’invasione franca capitanata da Pipino ed è strano che i Longobardi si siano lasciati sorprendere, in venti anni, due volte allo stesso modo. Forse è più realistico pensare al tradimento di qualche duca longobardo, notoriamente personaggi molto turbolenti ed infidi.
In questa sede interessano però di più le mosse di Bernardo, il quale, una volta superato Bard ed investita Ivrea, si trovò nel dover scegliere se proseguire verso sud, attraverso l’antica strada romana di Quadrata o dirigersi ad est, percorrendo la Via Francesa, diretta verso Vercelli e Pavia, capitale del regno Longobardo. Sappiano dalla " Chronicon Imaginis Mundi " di fra Giacomo da Acqui che lo zio di Carlo scelse questa seconda opportunità, arrestandosi davanti alle Chiuse che i Longobardi avevano costruito, per ordine di re Desiderio, tra Dora Baltea e la Serra.
Probabilmente a causa dell’affanno dei biografi francesi tesi a glorificare Carlo, per secoli si è sorvolato sulla figura di Bernardo, ribadendo invece quella del mitico giullare, quasi si fosse trattato di un intervento divino. La vicenda dello zio del re, fermato in Canavese da un efficace sistema di fortificazioni, cadde quindi nell’oblio e con lui il vallo fatto costruire da Desiderio, probabilmente sulle tracce di uno presistente, forse dovuto ai bizantini.
Ispirandoci agli studi del Rondolino, del Ten. Colonnello Guido Amoretti e del Generale Clemente Ramasco, autore di una pregevole relazione dalla quale sono stati estratti le mappe ed i disegni inseriti di seguito, esaminiamo adesso a fondo i motivi strategici che possono aver consigliato i Longobardi ad edificare una tale opera.
Ricordando che le chiuse di Bard erano già in mano franca ed Ivrea, di per se stessa, non ha mai avuto molta efficacia nello sbarrare il passo ad esercito invasore proveniente dalla Valle d’Aosta. Per comune ammissione la localizzazione della città è giustificata unicamente dal suo ponte sulla Dora, a valle, solo a Mazzè esiste la possibilità di passare il fiume prima che della sua confluenza col Po.
Ovviamente, se s’intende evitare l’invasione della Pianura Padana, si deve presidiarne gli accessi, fortificandoli, cosa che appunto fecero i Longobardi, seguendo la tradizione ereditata dai secoli precedenti. Costruendo in Canavese un Vallo dalla Dora alla Serra ed un campo trincerato a Mazzè, re Desiderio impediva ad eventuali attaccanti, provenienti da nord, di passare il fiume e prendere alle spalle i difensori delle fortificazioni principali.
A questo punto ritengo sia opportuno rileggere cosa argomentava nel 1334 fra Giacomo da Acqui, anno in cui compose la sua " Chronicon imaginis mundi ", opera rivelatrice, anche se ritenuta fantasiosa da molti commentatori e totalmente falsa dalla Emanuela Mollo, perché dichiaratamente imperniata su racconti popolari non documentati.
" Nell’ingresso della Lombardia (ricordiamo che allora per Lombardia si intendeva tutta la parte nord occidentale dell’Italia), dalle parti d’Ivrea, esiste una grande clausura di pietre ammucchiate in grande quantità fra la Dora e la costa che dicesi Calamaz (La Serra), sicché essa correva da Cavaglià alla Dora da una parte, e dall’altra corre la costa di Calamaz. Nel mezzo è costruito un muro grandissimo, lungo largo di pietre grosse e piccole adunate a mo’ di macerie, e sopra di esso sorgevano molti castelli di legno cosi che veruno che venisse a piedi od a cavallo poteva passarvi. Nel mezzo del muro sopra la strada regia eravi una gran porta chiusa di muro forte calcinato che vietava l’ingresso e l’uscita ed era munita di porta di ferro. Loggie ( dal francese antico loges, tende, accampamento, alloggi) dicesi ancora oggi la fabbrica di cotal muro e tali loggie vedemmo perché di esse rimangono tuttodì in molti luoghi le vestigia "
La precisione nella descrizione dei luoghi è incontrovertibile e dimostra che fra Giacomo si recò di persona ad ispezionare il sito, ricavandone le notizie e le impressioni che riferisce nella sua opera. Dopo varie divagazioni la cronaca prosegue in questi termini:
" Scendono i gallici (franchi) con Carlo Magno loro re e prendono senza indugio la città d’Ivrea. Poscia pongono la massima parte dell’esercito loro fuori dai muri delle predette Loggie, mentre dentro il muro stassi re Desiderio con i suoi Longobardi "
Detto del modo in cui erano composti i due eserciti e di quello che il Papa teneva a Bologna, il frate di Acqui prosegue:
" Tediato Carlo dal lungo combattere che vi si faceva da tre anni, raccolse cinquecento giovani nobili e cavalieri donandoli di molti monili e maggiori promettendone loro se senza indugio fossero penetrati nel chiuso di dette Loggie. Nel giorno assegnato a tal fatto cominciossi da Galli (Franchi) a pugnare dal fuori e dai Longobardi da dentro del luogo; e fu gran pugna nella quale morivansi e si feriva con dardi e con pietre, e dei cinquemila (sic) giovani che tutto il peso della lotta portavano, duemila (sic) vi morirono prima che potessero conquistare il luogo delle Loggie. Entraronvi alfine a tutta forza con sì gran strage di Longobardi che re Desiderio, vedute perdute le chiuse, retrocedè coll’esercito suo fino a Santa Agata (Santhià). Inseguillo re Carlo fino a disopra di San Germano nel luogo detto bosco di Carlo e dove tuttodì è un monticello; e quivi i due eserciti pugnarono di continuo per trenta (sic) giorni ed altrettanti notti, divisi solamente da una gran fossa profonda un cubito e colma d’acqua".Dopo il tredicesimo giorno il Re dei Franchi oltrepassa la fossa a cavallo "foveam predictam eques saltavit" , ed invade il campo nemico . Carlo coi suoi combatte con grande ardore , "maximo pondere belli" e anche Desiderio e i suoi resistono fortemente , ma alla fine il Re dei Franchi , espugna il campo . Desiderio retrocede fino a Vercelli che non aveva fortificazioni. In quest’ultimo brano l’autore riporta chiaramente varie inesattezze: i giovani dai cinquecento di prima diventano cinquemila e proporzionalmente i morti saranno stati duecento e non duemila. La pugna a San Germano, secondo fra Giacomo, dura ben trenta giorni mentre è più ammissibile la durata di tre, ma sopratutto cita Carlo al posto di Bernardo, anche se è possibile che il re, a mente di quanto detto da altri autori, scardinate le Chiuse della Valle di Susa, sia corso in soccorso dello zio, fermo col suo esercito davanti alle fortificazioni canavesane.
Il Gasca Queirazza nel riportare il racconto annota "La linea di ritirata dell'esercito longobardo e dell'inseguimento dei Franchi risulta perfettamente coerente lungo il percorso della strada regia o francigena , e precisamente indicata attraverso le tappe di Santhià , della località sopra San Germano detta "Saltus Carli" , poi Vercelli , quindi Mortare e infine Pavia", "Il racconto del balzo che per guidare l'assalto Carlo fà con il cavallo oltre la fossa che divide i due eserciti , sembra un tentativo di spiegazione etimologica popolare del toponimo Saltus Carli che probabilmente poteva indicare , selva oppure bosco da pascolo o podere , la durata trigesimale dello scontro vuol dare , in termini irreali , la misura epica della battaglia.
Il Cusano ricorda il Salto di Carlo sangermanese dandone una sua spiegazione "Conforme alcune tradizioni si ha che il medesimo imperatore Carlo in compagnia col Vescovo di Vercelli , Cuniberto , giungendo nel luogo di San GErmano nel vercellese , chiamato Salto di Carlo perchè vi venne in gran prontezza ed a gran giornate , ivi si fermasse , e più accertatamente in Vercelli...........".
Anche lo storico sangermanese Aurelio Corbellini attribuisce al paese il nome di Salto di Carlo.
Nonostante gli svarioni, quanti nel corso del XX secolo hanno scritto della vicenda delle chiuse longobarde canavesane, non limitandosi a ricerche d’archivio, ma perlustrando il territorio di persona e qui cito nuovamente per inciso Ferdinando Rondolino, Guido Amoretti, Clemente Ramasco e quant’altri si sono occupati dell’argomento, si trovano tutti concordi nel ritenere in generale veritieri i fatti raccontati da fra Giacomo. Le inesattezze contenute nella Chronicon imaginis mundi, probabilmente ispirata alla " Chevalerie d’Ogier de Danemarche " una - chanson de geste – del XII secolo, non sono superiori a quelle inserite nelle opere di altri autori medievali, tesi, come era costume, a moltiplicare il numero dei morti ed a magnificare altri particolari truculenti allo scopo di inorridire i lettori ed i loro ascoltatori.
Tutti gli autori, dai più antichi ai contemporanei, a sostegno delle loro argomentazioni sulla opportunità dei Longobardi di predisporre le Chiuse canavesane, affermano che la Dora a quel tempo era molto più ricca d’acqua di oggi ed era transitabile unicamente ad Ivrea, dimenticando o ignorando che questo era possibile anche a Mazzè. La cosa è abbastanza strana perché questa possibilità era certamente nota in Canavese, fosse a mezzo del ponte su cui si favoleggia da secoli o al ghiaione del lupo, l’unico guado praticabile tra Ivrea ed il Po, citato da Pietro Azario nella sua cronaca sulle guerre del Canavese. Addirittura pare che lo stesso Arduino di Ivrea ne abbia usufruito durante la campagna contro gli imperiali attestati nel Monferrato.
Naturalmente la possibilità che si potesse passare comodamente la Dora a sud di Ivrea rendeva strategicamente inutili le Chiuse, perché il nemico, una volta conquistata questa città, poteva comodamente recarsi a Mazzè percorrendo l’antica strada romana per Quadrata, passare la Dora e cogliere alle spalle i difensori del vallo. A meno che, reso inutilizzabile il favoloso Pons Copacij, il guado del lupo fosse stato guarnito e fortificato in modo da impedire ai Franchi questa manovra.
Scartata l’ipotesi di predisporre uno sbarramento sulla sponda vercellese perché paludosa e scarsamente difendibile, non restava che la possibilità di costruire un campo trincerato sulla sponda occidentale della Dora, cercando di impedire alla cavalleria pesante franca, notoriamente in grado di frantumare qualsiasi ostacolo, di lanciarsi in una carica devastante.